IL CINEMA AMATORIALE - IL CINEMA PRIVATO

TESI - UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE - FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA - CORSO DI LAUREA
DAMS - Anno Accademico 2004/2005

CINEMA AMATORIALE – CINEMA PRIVATO.
MICHELANGELO BUFFA, L’ESPERIENZA DI UN AUTORE ITALIANO

Candidato Fabrizio Fuochi
Relatore Chiar.mo Prof. Alessandro Bernardi

INTRODUZIONE............................................................................................................. 4
IL CINEMA AMATORIALE........................................................................................... 5
TELEVISIONE E  HOME MOVIE.............................................................................. 17
LA PRODUZIONE FAMILIARE NEL CINEMA FICTION...................................... 19
NEW AMERICAN CINEMA....................................................................................... 21
JONAS  MEKAS  Tecniche cinematografiche che cambiano....... 27
STAN BRAKHAGE IN DIFESA DEL CINE-“AMATORE”................................... 28
EGOPRODUZIONI O CINEMA PRIVATO............................................................... 31
PELLICOLA – VIDEO................................................................................................. 34
CINEMA PRIVATO...................................................................................................... 36
CINEMA PUBBLICO CINEMA PRIVATO, CONSCIO INCONSCIO.................. 40
MICHELANGELO BUFFA......................................................................................... 43
SCHEDE....................................................................................................................... 55
BENARES..................................................................................................................... 55
SCARTI DI MEMORIA.............................................................................................. 56
UNA “METRE’SSA” A GRAND VILLE.................................................................... 57
CONCLUSIONI............................................................................................................ 58
BIBLIOGRAFIA............................................................................................................ 60
FILMOGRAFIA............................................................................................................. 60
SITOGRAFIA................................................................................................................ 60
APPENDICE................................................................................................................ 61
INTERVISTA................................................................................................................ 61

INTRODUZIONE

Durante le Giornate del Cinema Privato nel novembre 2005 a Siena, in un dibattito successivo alla visione di un film, Adriano Aprà  cita un dato a proposito delle vendite di pellicola della  Kodak.
Secondo quanto ci riferisce Aprà,  la vendita di pellicola 35mm (considerato un formato professionale) risulta solo il 30%, il restante 70% di pellicola (non professionale) è diviso tra 8mm, super 8 e 16mm. Una percentuale che Aprà ricorda  costante anche negli anni ’70, dove la produzione di cinema di finzione risultava essere di 30% a 70%. Aprà, secondo le finalità del suo intervento, dimostra che abbiamo la massima  informazione di un cinema che percentualmente è minoritario. Il restante 70% che possiamo identificare come non-fiction - tra cui il  cinema amatoriale, il cinema familiare, i documentari, e quel territorio non ben identificato del cinema privato -, è quello di cui meno si parla ed è anche il meno documentato. Allora se tutto questo 70% è così anonimo dobbiamo porci qualche domanda.  Io nel tentativo di rispondere, ho seguito da una parte, il percorso della ricerca effettuata da Roger Odin nel campo del cinema amatoriale e del cinema di famiglia; dall’altra, ho fatto riferimento a tutto quel materiale e a tutte le ipotesi emerse, quasi in tempo reale, nel dibattito sul cinema privato, all’interno del convegno Le giornate del cinema privato.
Nella parte finale ho cercato di affrontare l’opera di Michelangelo Buffa a conferma  di una modalità espressiva complessa e variegata  collocabile dentro il territorio cinema privato.

IL CINEMA AMATORIALE
Il cinema amatoriale è il cinema più praticato ed è quello che, paradossalmente, risulta il meno conosciuto e il meno studiato: solo nel 1995 Il gruppo di ricerche interdisciplinari creato da Roger Odin, alla Sorbonne nouvelle ( Paris III ) ha prodotto una delle prime opere di ricerca  interamente dedicata al film di famiglia. Il cinema  amatoriale, abbraccia un campo estremamente vasto ed eterogeneo, che va dal film di famiglia al diario filmato, al cinema sperimentale,al documentario, al cinema privato.
Lo studio effettuato da Roger Odin, e pubblicato sulla Storia del cinema mondiale, riconferma il fenomeno, in merito al cinema amatoriale, di essere così importante da un lato e di essere così poco oggetto di studio, da parte degli studiosi, dall’altro. Odin,  tentando di definire il campo del cinema amatoriale, prende le distanze dalla semplificazione che vede il cinema professionale in opposizione al cinema amatoriale, e cercando di chiarire la difficoltà di accordare un primato all’uno o l’altra, espone alcuni esempi. Dal punto di vista della qualifica  professionale, in realtà, ci sono moltissimi professionisti che con il cinema non riescono a guadagnarsi da vivere, e  altri, invece, per i quali il fatto non rappresenta in tal senso un limite.  Questo confine incerto esiste anche da un punto di vista tecnico, in quanto anche il formato della pellicola non è di per se qualificante, poiché, se  ci sono pellicole amatoriali in 35 mm, è pur vero che anche il 16mm, nato come amatoriale è divenuto in seguito un formato professionale; lo stesso super 8 spesso viene utilizzato da professionisti.  Il confine tra i due mondi risulta di difficile attribuzione, eterogeneo e in  continua evoluzione. Anche gli spazi dove si svolge l’attività amatoriale, per esempio un film di famiglia, una fiction realizzata collettivamente da un cineclub, un videosaggio di fine anno  di uno studente di liceo, sono la dimostrazione di più ambiti amatoriali diversissimi tra loro.  Dal punto di vista dell’utilizzazione del cinema amatoriale, Odin afferma che ne ha riscontrato, in moltissimi casi, un utilizzo extra contestuale. Citando Umberto Eco, ci si “serve” del cinema amatoriale, e ciò equivale a fare una lettura non autorizzata del testo, rispetto al contratto di lettura originale.
Ripercorrendo i vari  modi in cui viene ri-utilizzato, viene classificata una tipologia di cinema amatoriale definendolo dei professionisti. A questo proposito l’esperto frances cita l’AMPAS, attiva dal 1927 la quale  raccoglie tutte le produzioni dedicate a Hollywood e in particolare i film amatoriali realizzati durante le riprese dagli attori dai registi o dai tecnici, back stage (dietro le quinte) realizzati durante le produzioni hollywoodiane. L’utilizzo di questo materiale amatoriale, almeno in questa prospettiva, avrebbe l’unico  scopo di contribuire ad alimentare il mito, hollywoodiano. Lo studioso francese analizza la definizione che di  “cinema amatoriale” viene data  su alcuni testi ufficiali di cinema. Odin cita il caso del Dictionnaire du cinéma ( J.L. Passek, Paris, 1991), nel quale non risulta la voce “dilettante”, viene riportata la pratica amatoriale di alcuni registi e omessa quella di altri, ma  quando la si segnala, essa viene riportata esclusivamente come tappa fondamentale del percorso artistico del futuro autore (per esempio, ll Dictionnaire du cinéma scrive di A. Resnais che fin dall’età di tredici anni gira con una 8mm brevi film amatoriali ). Il ricercatore transalpino critica questa riduzione del cinema amatoriale ad anticamera del futuro professionista, questo loro esistere solo nella luce riflessa di lavori successivi e professionali. Io studioso francese prosegue esaminando il cinema amatoriale nel cinema professionale, elencando tutta una serie di titoli di film dove c’è l’utilizzo di materiale amatoriale, da Legge 627 di Bertrand Tavernier del 1992, dove l’intervento amatoriale e di tipo anedottico,  a Toro scatenato, di Martin Scorsese del 1980, dove la strumentalizzazione del materiale amatoriale e in funzione della memoria, passando per il ruolo di prova nel film JFK di Oliver stone del 1991,  ma l’utilizzo in questo caso, sottolinea Odin non è tanto parlare del cinema amatoriale, quanto servirsene per raccontare una storia.
Un film dove il soggetto è il cinema amatoriale stesso è Il neofita (Amator) di Krzystof Kieslowski, del 1979, dove un semplice operaio, Filip, diventa vittima di una devastante passione per il cinema, che lo portera alla rottura del matrimonio e Odin approfitta della trama del film, per ricordare che il cinema amatoriale può portare conseguenze tutt’altro che innocue.
Ma l’aspetto più interessante, e probabilmente è il punto che più interessa al ricercatore francese riguarda non tanto  i differenti modi di far intervenire il cinema amatoriale nell’intrigo, quanto analizzare l’effetto prodotto dall’intervento del film amatoriale nella relazione con lo spettatore 

Sempre seguendo il ragionamento dell’esperto francese , sono i pubblicitari ad avere compreso il potere persuasivo di questo tipo di film che fa sentire il grande numero di spettatori  membri della stessa  famiglia. Odin cita  una campagna pubblicitaria dei primi anni ottanta: una serie di proiezioni di filmini di taglio amatoriale con il suono del proiettore in sottofondo,  tutti i familiari festeggiano intorno al prodotto (un succo di frutta), i diversi personaggi guardano verso lo spettatore e invitano ad unirsi alla festa per il consumo del prodotto. L’autore dello studio  conclude che attraverso questo stratagemma ci troviamo coinvolti nella grande famiglia del prodotto.
Il riconoscimento del cinema amatoriale come documento, secondo Odin, almeno nella forma più spettacolare, avviene nel 1994, attraverso l’inserimento nella collezione della Library of Congress ( New York ) del film di Adam Zapruder sull’assassinio del presidente Kennedy del 22 novembre 1963. Ma questa tendenza è generale, e un po’ in tutta Europa si assiste alla nascita nelle cineteche, di un reparto che si occupa della conservazione del cinema amatoriale. Anche la FIAF ( Féderation Internationale des Archives du Film ) inserisce il cinema amatoriale nei programmi dei suoi convegni, nel 1984 e nel 1988, anche alcuni programmi  televisivi incominciano ad utilizzare sotto forma di documenti, materiale amatoriale.
Un gruppo di ricercatori della Temple University, sviluppa la ricerca, attraverso i film di famiglia con lo scopo di studiare come la società vede se stessa. Sostanzialmente «ogni cineasta di famiglia è un antropologo senza saperlo, filma momenti di vita che i professionisti non riprendono». Prosegue il ricercatore francese affermando che oggi sociologi e storici riconoscono l’interesse che è all’interno di queste produzioni le quali offrono uno sguardo da dentro, un orizzonte altrimenti poco accessibile. Secondo Odin l’immagine, all’interno di un film familiare, deve essere rivalutata a partire dalla sua forte rappresentatività.

un’immagine di film di famiglia proprio perché è un condensato, una cristallizzazione di centinaia di migliaia di immagini analoghe, possiede una straordinaria forza esemplificatrice […]una sorta di concentrato di memoria collettiva

L’esperto francese sottolinea l’importanza di riconoscere il cinema amatoriale come documento, non senza ricordare i rischi della manipolazione,  da una parte all’interno del materiale stesso- con tutti i rischi del cambio di senso - , e dall’altra nell’ulteriore alterazione o rielaborazione manipolazione  dovuta al ri-usarlo come punto di vista per comprendere la società.
Odin, nel tentativo di individuare gli elementi per una storia del cinema amatoriale, e facendo una analogia con le stesse difficoltà incontrate  nella storia del cinema tradizionale, perviene alla conclusione che tale storia può essere tentata sulla base di alcuni livelli di analisi.
Un primo livello è quello della storia tecnica, ovvero quello relativo alla storia del materiale.
L’autore dello studio ricorda  alcuni testi riccamente corredati, sia di immagini che di descrizioni tecniche, che partono  dal materiale  pre-cinema per giungere sino ai giorni nostri: una storia cumulativa dei collezionisti scritta in massima parte  da collezionisti. Egli sottolinea che quattro sono le  condizioni tecniche preliminari per la nascita di un cinema amatoriale. La prima di queste condizioni è la sicurezza, che solo nel 1923 con l’utilizzo di una pellicola ininfiammabile permette al cinema amatoriale un completo sviluppo, le altre tre condizioni vengono riassunte nello slogan « piccolo, semplice ed economico » ( catalogue général Pathé- Baby, anni venti ). Le tappe dell’evoluzione: abbandono del 35 mm e creazione, dopo molte esitazioni (17,5; 21; 22; 28, e poi 11 mm) di formati sempre più stretti: dapprima il 16 e il 9,5, poi, dal 1932,  l’8 mm; passaggio dalla ripresa a manovella alla motorizzazione ( nel 1928 Pathè distribuisce la Motocaméra con motore a molla); passaggio dalla bobina alla cassetta pronta per essere caricata ( dapprima in 9,5 mm per la Pathé, destinata alla proiezione e successivamente, dal 1965, in Super 8, per la ripresa); miniaturizzazione del materiale, sviluppo degli automatismi (messa a fuoco e apertura del diaframma ); passaggio alla telecamera dapprima con un materiale relativamente pesante e ingombrante e poi a partire dal 1970, la videocamera. Odin definisce la portata di una tale storia limitata, ma inevitabilmente legata all’esistenza del cineamatore e al suo amore per il materiale, tanto che può  effettuare delle riprese solo allo scopo di sfruttare le caratteristihe tecniche del materiale.
La storia della stampa specializzata è tutta orientata nella descrizione delle caratteristiche tecniche e ad informare il bricoleur amatoriale sulle caratteristiche  di un prodotto attraverso tavole comparative, test, schede analitiche, senza entrare nei problemi. Odin definisce questo livello una storia delle invenzioni,:

non solo (questo tipo di storia) non si avventura a mostrare le conseguenze dell’evoluzione della tecnica sui film stessi, ma anche raro che faccia qualsiasi collegamento fra tecnica industria ed economia. E, soltanto questa triplice correlazione permette di capire quanto sta avvenendo. 
      
Lo studioso, a riprova di quanto sopra riporta vari esempi, tra i quali l’insuccesso dello standard 9,5 mm: a causa della debolezza commerciale della Pathé, impossibilitata a imporsi negli Stati Uniti dove il mercato è controllato dalla Kodak. A dimostrazione che certi sviluppi o ritardi nel campo amatoriale sottostanno a regole di mercato complesse e molteplici che necessitano uno studio di cui Odin denuncia il ritardo.
Un ulteriore livello di analisi prende in considerazione gli uomini e  le opere, l’esperto francese, fa la recensione, di un testo di Michael Kuball, dal titolo Familienkino (1980 ), che propone la storia del cinema amatoriale in Germania in due volumi. Sostanzialmente il testo si presenta come una successione di monografie, in ordine cronologico, sui registi e le loro opere, dal quale Odin deduce, attraverso  l’uso che in tale testo viene fatto di documenti personali ( autobiografie ), dalle ampie descrizioni dei film, la volontà di considerare  i cineasti amatoriali quali veri e propri autori. Infatti, prosegue “i film amatoriali acquistano senso solo se rapportati alla vita di chi li ha girati”, e conclude che un procedimento come l’insistere sulle note biografiche, che permette di ricostituire il contesto del lavoro dell’autore, è una pratica che non è considerata produttiva per la storia delle arti e per la storia del cinema tradizionale, ma nel contesto amatoriale acquista una notevole pertinenza.
Lo studioso francese suggerisce una equazione che: la storia del cinema tradizionale sta alla storia di una nazione, come la storia del cinema amatoriale sta alla storia locale; i film amatoriali costituiscono anzitutto meravigliosi documenti di vita locale (feste, costumi, tradizioni, modi di vivere…). Odin prosegue tentando di schematizzare i motivi che portano alla decisione di costituire archivi specializzati in materiale amatoriale, che automaticamente si trasformano in documenti. Questo bisogno di una  memorizzazione locale, viene riassunto almeno in parte in alcuni parametri costanti: la decentralizzazione, ovvero una presa di coscienza dell’importanza del locale; il riconoscimento di identità storico culturale di una determinata comunità; l’intervento d’un individuo impegnato nella vita culturale locale, il quale si preoccupa di raccogliere il materiale; ed infine l’istituzionalizzazione e la nascita di una politica di archiviazione. Tutto questo materiale permette ai ricercatori di tracciare la storia del cinema amatoriale.
Reel Families è, secondo lo studioso francese, il solo lavoro a proporre una vista d’insieme articolata della storia del cinema amatoriale in un determinato paese, in questo caso gli Usa dal 1897 ad oggi. La storia è suddivisa in tre grandi periodi. Il primo dal 1897 al 1923 ovvero la  proliferazione anarchica delle apparecchiature. Il secondo è dedicato alla fase dell’istituzionalizzazione della pratica amatoriale. L’ultimo periodo, inizia con gli anni cinquanta e con l’esplosione della civiltà del tempo libero. Un periodo in cui la generale diffusione delle apparecchiature automatiche porta ad una banalizzazione dell’uso della cinepresa, dove  filmare i figli è il motore principale della produzione. Odin sottolinea nella periodizzazione del lavoro della Zimmerman alcune analogie con l’esperienza francese, e con altri paesi.  Le differenze risiedono nella concezione dello spazio amatoriale,  che negli Stati Uniti e vissuto in modo professionale e serioso, in Francia come occasione per il divertimento.Il dilettantismo americano non corrisponde in tutto e per tutto al dilettantismo francese. La seconda differenza, è industriale e culturale, riguarda la presenza di Hollywood e del mito hollywoodiano sia nell’ambito di riferimento per i futuri professionisti, sia come invasione nell’immaginario collettivo. Negli Usa la differenza non è tra dilettanti e professionisti, quanto tra chi s’adegua alla norma hollywoodiana e chi non vi s’adegua.
L’esperto francese, tracciando un bilancio finale del lavoro della Zimmermann, conclude elencando una serie di  forti contraddizioni e dubbi che dimostrano come parlare di film amatoriali significa porsi all’interno di una posta ideologica essenziale per la nostra società.

Contraddizione tra l’affermazione d’un discorso di formazione e una funzione di promozione commerciale e di protezione del settore professionale; contraddizione tra un discorso di creatività e un discorso estetico normativo che riduce al massimo l’immaginazione e la spontaneità; contraddizione, infine, tra un discorso di democratizzazione e di libertà e un’azione permanente di controllo sociale.
  
Uno degli ultimi paragrafi della ricerca dello studioso francese riguarda l’analisi degli spazi comunicativi del cinema amatoriale nella prospettiva semio-pragmatica, cercando di capire il funzionamento di  questi spazi, che nel caso specifico sono quello familiare e quello dei club.
Lo spazio del film di famiglia che è stato esplorato da Odin e la sua équipe nel lavoro di ricerca Le film de famille, conferma il primato del film di famiglia come primo genere cinematografico. A questo proposito Odin cita il primo film di famiglia di Louis Lumière Le repas de bébé ( 1895 ), e prosegue affermando che studi recenti forniscono le prove storiche che il cinema è stato concepito dai Lumière, come un prolungamento perfezionato della fotografia amatoriale di ricordo. Quindi il cinema non più come rottura rispetto alla fotografia, ma come prolungamento dello stesso discorso, il cinema è fotografia vivente di famiglia . Odin, riferendosi ad altre ricerche parallele al proprio orizzonte, ricorda che anche negli Usa, all’origine il cinema è vissuto come luogo della memoria familiare. Questa premessa permette al ricercatore francese di sottolineare il paradigma della foto ricordo, come modo di lettura, al quale deve sottostare il film di famiglia, e non al paradigma del cinema, e ulteriormente manifesta la sua perplessità che una storia del cinema dentro il paradigma foto-ricordo non sia ancora stata scritta, benché la sua importanza in termini di quantità  di produzione e di effetti sociali possa stimarsi superiore a quella  del cinema tradizionale.
Una volta stabilita l’origine del “gesto” del film di famiglia, si capisce il motivo, prosegue Odin, del suo susseguirsi incoerente di immagini, poiché l’origine di quel gesto del filmare non appartiene alle norme cinematografiche, ma è dentro la prospettiva della fotografia quale strumento della memoria. Quindi la sua apparente discontinuità è dovuta al fatto che non ha niente da raccontare, in quanto coloro che devono vederlo hanno gia vissuto gli avvenimenti di cui parla, lo scopo del film, come nel caso della fotografia, consiste nell’eccitare la memoria degli attori-spettatori-familiari.
Paradossalmente il film di famiglia deve essere fatto male, cioè non deve avere nessun punto di vista, per realizzare la sua missione, infatti sono gli stessi familiari, costretti dalla discontinuità del film, a dover  fare uno sforzo e interagire con gli altri membri della famiglia, per aggiungere i pezzi che mancano al racconto, e perché infine  la coesione del gruppo ne esce consolidata.
Lo scopo del film di famiglia è produrre consensi e perpetuare la famiglia. Il ricercatore francese conclude parlando del doppio senso che si realizza nella visione del  film di famiglia, da una parte una produzione individuale, ( ciascuno ritorna sul proprio vissuto), dall’altra una produzione collettiva ( si parla molto guardando un film di famiglia, come anche guardando un album  di famiglia ).
Lo spazio del club amatoriale si sviluppa a partire dagli anni trenta, è uno spazio fortemente competitivo.
Il cineasta amatore è un ex cineasta familiare, il paradigma di riferimento è il cinema professionale e le pellicole realizzate dentro questo riferimento, spesso non sono in rapporto con la vita reale: si tratta di film d’animazione, canzoni filmate, gag di ogni genere. I documentari privilegiano le scene pittoresche i bei paesaggi l’esotismo, Odin  rileva la natura media delle produzioni, contraddistinte da quella che definisce una  “demagogia del gradevole”, i cui partecipanti appartengono ad una classemedia, con rappresentanti delle libere professioni, commercianti, medici e dentisti, non ci sono giovani, l’età media oscilla fra i quaranta e quarantacinque anni.
Lo studioso francese ricorda infine la necessità di uno studio oltre il  film. Usando l’approccio etnometodologico  nello spazio  dei club, Odin riferisce di uno studio su un club parigino, nel quale si evidenzia che è la vita associativa la vera ragion d’essere ( incontri, dibattiti, cene, viaggi, dove si costruisce un estetica condivisa ) non la produzione dei film, che generalmente non esce dall’ambito del club.  Insiste poi elle pratiche amatoriali, e afferma che nelle produzioni familiari questo è ancora più vero. In quanto il cineasta familiare filma - prima di tutto per il piacere di filmare -, un momento di felicità condivisa.
Ma questo gesto del filmare non è privo di conseguenze, e Odin cita l’esperienza di Marie Cardinal , la quale ha sofferto di allucinazioni per anni, proprio perché il padre la riprendeva quando era piccola, mentre faceva la pipì. L’aspetto degli effetti distruttivi, a scoppio ritardato,in particolare sui bambini, soggetti forzati e soggetti  spettatori sè stessi, è un elemento molto inquietante, che contrasta con il clima euforico tipico del  film familiare. Così prima ancora di essere film, il film di famiglia gia produce conseguenze impreviste, ma Odin mostra di non sapere come la storia del cinema amatoriale  possa gestire una tale analisi.
Nelle conclusioni, intitolate: Brevi note sul cinema amatoriale di oggi, il ricercatore francese considera i mutamenti tecnologici degli ultimi anni - il passaggio al digitale e al computer, internet -, insieme con il mutamento della società, la causa di una radicale trasformazione del cinema amatoriale. Senza considerare l’enorme quantità di produzione ( Odin parla di oltre quattrocentomila videocamere vendute in un anno, probabilmente riferendosi al mercato Francese ), Odin individua i mutamenti in due movimenti che si differenziano per la relazione che hanno con il destinatario.
Il primo movimento consiste nell’ingresso delle produzioni amatoriali nello spazio televisivo (di cui si tratterà nel paragrafo successivo). Il secondo movimento si pone in contrasto con il primo,  attraverso la contrapposizione allo strapotere del media televisivo, o come  tentativo di costituire uno spazio indipendente (e di questo argomento tratterò nel paragrafo cinema privato ego produzioni).
Odin conclude accennando ad internet, come nuovo spazio di sintesi delle mutazioni di cui sopra: da una parte si fa mostra di sè, sullo stile della trasmissione televisiva Il grande fratello, con famiglie che aprono siti dove mostrano la propria vita day by day; dall’altra internet è  uno spazio per diffondere testimonianze e dare peso alle parole degli esclusi ( si cita il caso del comandante Marcos ).  Odin nel chiedersi se è ancora sensato chiamare con l’aggettivo amatoriale le produzioni amatoriali di oggi, che sono dentro le cose che agitano le società,  di una cosa è certo:
vale la pena occuparsene: se non siamo noi a occuparci delle immagini, sono le immagini che si occupano di noi.

 

TELEVISIONE E  HOME MOVIE

In un articolo apparso su Bianco & Nero a firma di Roger Odin, sottolinea come l’ingresso della televisione nell’ambito domestico, e l’ingresso dentro i palinsesti televisivi di materiale video e film realizzato nell’ambito della famiglia abbia apportato, trasformazioni profonde, sia per le produzioni e motivazioni dei cineasti e videasti familiari  sia per il pubblico al quale queste produzioni (immagini) sono dirette.  L’azione di filmare, non è più ingenuamente rafforzativa della istituzione  famiglia, ma si cerca di ottenere un’immagine che abbia le caratteristiche per un passaggio televisivo. L’autore dell’articolo fa un preciso riferimento ad una trasmissione televisiva francese “ Videogag ”, la versione italiana è  “Paperissima”, in tale trasmissione c’è  l’alternarsi di cadute, scivoloni, incidenti apparentemente casuali, ma solo in apparenza. Il nuovo cineasta gira con “ un’intenzione precedente “, non c’è più l’utilizzo della cinepresa o videocamera per il piacere di filmare. Il suo obbiettivo è realizzare immagini  che  fanno ridere, oppure è alla ricerca di eventi spettacolari, per avere il passaggio in televisione.In sostanza non agisce più da cineasta dilettante, ma entra in competizione, diventa un concorrente. Infatti si parla di “professionalizzazione del  cineasta amatoriale”. Per Odin le conseguenze di questo tipo di produzione familiare cosi come le vediamo in televisione, sono che  non possono più essere considerate realmente delle produzioni familiari. Poiché tale materiale subisce tutta una serie di manipolazioni ( dal montaggio, all’inserimento di rumori, musica, commenti ), queste produzioni familiari,  sono fuori dal patto familiare, eppure questa nuova condizione crea uno spostamento di senso al quale i telespettatori non oppongono resistenza:

Quando un telespettatore vede un documento che è all’origine un film domestico, è portato a non porsi questo genere di interrogativi (sulla verità o falsità di ciò che ci viene mostrato): da un lato perché sapendo che quelle immagini sono state girate da un regista amatoriale e senza un’intento precostituito, è naturalmente incline ad accordare la sua fiducia; dall’altro, perché il fatto di sapere che si tratta di un film domestico accentua la relazione affettiva che intrattiene con essa ( è un regista amatoriale come lui quello che le ha girate; le avrebbe potute girare lui stesso)

Tutto questo meccanismo, sempre secondo lo studioso francese, comporta uno spostamento dell’interrogativo circa la “verità  a vantaggio del prodursi  di un effetto di “autenticità”, una sorta di  presunta verità interna, che viene scambiata per oggettiva. Il medium televisione assolve al rito della proiezione dell’home movie, o se vogliamo è il nuovo schermo e proiettore insieme, ma al contrario della superficie bianca, è uno schermo nel quale guardiamo tutti guardati dalla televisione come “membri della grande famiglia televisiva” .Nel rituale della proiezione si cerca di mascherare i conflitti della società, così come nel film di famiglia si nascondono i conflitti interni, dove il processo comunicazionale si basa “più sull’emozione che sulla dimostrazione, più sulla comunione che sulla comunicazione”L’unica eccezione a questo schema avviene, sempre secondo l’analisi di Odin, quando il materiale domestico viene utilizzato come prova. Per prassi consolidata, quando un film viene utilizzato secondo questa  modalità, è possibile che contribuisca a sollevare una problematica più vasta di quella che ha catturato dentro lo spazio dell’inquadratura. Odin cita il caso del video del  pestaggio di Rodney King, che ha permesso di mettere in luce la violenza e il razzismo dei poliziotti americani, ma nel sollevare un problema queste immagini non consentono mai di riuscire a focalizzare bene tutte le implicazioni che comportano certe realtà, e tanto meno a trovare delle risposte.   

LA PRODUZIONE FAMILIARE NEL CINEMA FICTION

Uno dei primi esempi  ,in ordine cronologico, citato da Odin,  è Rebecca la prima moglie ( Alfred Hitchcock 1940); la pellicola si rompe durante la proiezione preannunciando la rottura della coppia. Ma è nel film Muriel, il tempo di un ritorno (Alain Resnais 1963 ) dove il regista da una bella dimostrazione di come può funzionare un film domestico. La sequenza amatoriale si trova al centro del film, di cui è in un certo senso la chiave. Bernard proietta al vecchio Jean le immagini girate in Algeria.  L’utilizzo di immagini tipicamente amatoriali (immagini sovraesposte, sfuocate, mosse) obbliga lo spettatore a fare proprio il dramma del personaggio Bernard. Le immagini girate in Algeria durante il servizio militare assolutamente innocue (euforiche), ma disorganizzate, discontinue, mosse, casuali,  vengono accompagnate dal rumore del proiettore e dalla  voce off di Bernard:  il racconto, frammentario e piatto delle torture inflitte a  Muriel. Le immagini che vengono imposte all’improvviso su tutta la superficie dello schermo  provocano uno shock, diventano immagini difficili da vedere e non hanno  rapporto con le parole di Bernard,

ma la relazione s’impone ad un altro livello.Da una parte obbligando a guardare immagini fisicamente faticose da vedere (troppo chiare, mosse, sgranate)…una sorta di tortura, che opera la nostra messa in fase con il racconto della tortura di Muriel per mano di Bernard; dall’altra parte il fatto che le immagini proiettate siano così povere di contenuto rende disponibili all’ascolto e porta a immaginare le scene ricordate da Bernard. Il racconto della tortura di Muriel diventa allora il nostro film, un film che in quanto siamo noi a produrre le immagini, ci implica personalmente.

Nel film di Oliver Stone JFK-Un caso ancora aperto  (1991), viene utilizzato il super 8 di Zapruder per sostenere la tesi del complotto nell’assasinio di Kennedy.
Paris Texas  di  Wim Wenders ( 1984 ), premiato a Cannes con la palma d’oro;  la visione sofferta di un film familiare  permette a Travis di recuperare il ruolo paterno agli occhi di suo figlio Alex.
Il neofita  di Kristof Kieslowski ( 1979 ), è una sorta di autobiografia del regista, che ripercorre il suo vissuto cinematografico. Nel film l’amatorialità è oggetto e soggetto, al contrario di Wenders dove la metacinematografia è un distillato di  costanti alchimie. Il neofita  è film straordinario sull’apprendimento della visione più che sull’apprendistato cinematografico. La cinepresa è protagonista di questo film tanto quanto l’uomo  che attraverso di lei riscopre il mondo, e la consapevolezza del proprio punto di vista che può condizionare ciò che vede, nell’univocità di un solo sguardo. Lo stile del film è asciutto e scarno, il tema del film; che lega finzione e realtà, filmare la realtà che non si può capire, è al tempo stesso la  forma e l’oggetto del racconto, in un ritratto tra la vita di chi filma e il suo filmare la vita.
Il film inizia con una sequenza di un piccolo falco che divora una gallina. Questa immagine che appare in sogno ad Irka, in attesa di una bimba e moglie di Filip, giovane impiegato di una azienda di Witowice , è premonitrice di un cambio di rotta nella vita del protagonista. La passione per il cinema che fagocita tutto. Infatti sull’onda dell’entusiasmo del nuovo ruolo di padre che lo attende, Filip decide di comprare una cinepresa per riprendere la figlia, ma ben presto questa decisione segnerà una svolta nella vita del protagonista, il film si conclude con l’immagine di Filip che si autoriprende, la cinepresa si nutre della vita.

NEW AMERICAN CINEMA

Il cinema amatoriale come agente di rinnovamento nel cinema vede nella figura di alcuni cineasti, Stan Brakhage, Jonas Mekas, Maya Deren, Marie Menken, Joseph Morder, un modo per smuovere il cinema. Il 28 settembre  1960 alcuni giovani registi in rivolta contro i compromessi del cinema commerciale e riuniti intorno al produttore Lewis Allen, costituirono il The new American Cinema Group, basandosi sul principio che il cinema, “ espressione personale “, dovesse avere libertà totale, al di fuori di qualsiasi tipo di cesura.

Unendoci, vogliamo mettere in chiaro che c’è una differenza fondamentale fra il nostro gruppo e organizzazioni come la United Artist. Noi non ci mettiamoinsieme per fare soldi. Noi ci mettiamo insieme per fare film. Noi ci mettiamo insieme oper creare il New American Cinema. E lo faremo con il resto dell’America, con il resto della nostra generazione. Convizioni e cognizioni comuni, rabbia e impazienzacomuni, è questo a stabilire il legame fra noi, come pure con i movimenti di Nuovo Cinema nel resto del mondo. I nostri colleghi francesi, italiani, russi, polacchi o inglesi possono contare sulla nostra determinazione. Come loro, anche noi ne abbiamo abbastanza della Grossa Menzogna nella vita e nelle arti. Come loro, noi non siamo soltanto per il nuovo cinema: siamo anche per l’Uomo Nuovo. Come loro, anche noi siamo a favore dell’arte, ma non a spese della vita. Non vogliamo film fasulli, leccati ammiccanti: li preferiamo aspri e scabrosi, ma vivi; non vogliamo film rosei: li vogliamo color sangue.
    ( 30 settembre 1960)  (The first statement of the New American Cinema      Group, in “Film culture, n. 22-23,     estate 1961.)

      
Nel 1962 Jonas Mekas, direttore del Magazine Film Culture, e regista di Guns of the Trees , fondò the Film Maker’s Cooperative. I primi aderenti al gruppo furono Gorge Manupelli, Bruce Baillie e John Fles, ai quali si unirono Andy Warhol, Peter Goldman, Geroge Landow e una decina d’altri. Il movimento provocò una specie di esplosione e di espansione a catena del film d’amatore “ semiprofessionale “, a tal punto che intorno agli anni ‘70 si contavano circa un’ottantina di cineasti legati al cinema Underground. Esso deve il suo nome al fatto di essere più o meno clandestino e di avere molte affinità col movimento “ beatnik “.
Nella sua introduzione al catalogo, del Festival Internazionale  Cinema Giovani di Torino del 1986 , dal titolo Flash-Back/ Flash-forward, Adriano Aprà mette in risalto che i film di quella stagione hanno ancora molto da insegnare, e se non proprio tutti i film, certamente l’atteggiamento che li sosteneva, sia che i film fossero sperimentali, documentari o narrativi. Ma subito dopo Aprà facendo una considerazione sull’attuale situazione (1986) profondamente cambiata, si interroga quanto di quell’atteggiamento ( etico-underground ) sia attuale soprattutto in Italia dove professionismo, successo e denaro sono  le parole d’ordine che ridicolizzano, l’atteggiamento amatoriale proprio di tanto cinema americano e non solo americano. Aprà continua chiedendosi quanto le suggestioni filmiche e verbali di Mekas, di Brakhage, o di Cassavetes,  e di altri autori, siano vissute oggi in maniera attiva e procreativa piuttosto che essere classificate e archiviate come un’esperienza del passato. Aprà elenca dell’esperienza indipendente di quegli anni, alcuni risultati. Molte tecniche elaborate in campo sperimentale, il più delle volte nate nelle vasche da bagno, sono state assimilate e sviluppate nel campo (odiato) pubblicitario, nel settore della videomusica  dove hanno saputo coglierne immediatamente gli elementi innovatori. Particolarmente il campo documentaristico nelle forme del cinema diretto o cinema verità, non ha avuto problemi ad essere assimilato in quella  televisione a cui era in prima istanza destinato.
Prosegue Aprà, sottolineando che altre indicazioni, di quel cinema indipendente sembrano più difficili da assimilare, tra quelle più importanti e attuali, una su tutte la pratica  di distaccarsi dalla sceneggiatura ( Cassavetes, Mekas, Brakhage, Leacock ) sembrano scoperte che non possono essere integrate nel cinema narrativo; probabilmente dovuto anche alla eccesiva ortodossia del cinema indipendente che assimilava il racconto a “ Hollywood “, e dove se all’inizio questa posizione aveva qualche giustificazione, successivamente la posizione risultava di purismo elitario.

L’attore, una certezza del cinema narrativo, è passato negli anni Sessanta, attraverso un campo minato, e ha dovuto rinunciare alla sicurezza dell’interpretazione, del personaggio della sua stessa professione. L’attore compie un acting out nel quale è totalmente coinvolto come persona, non recita per la macchina da presa ma agisce con essa. Nel cinema americano indipendente si assiste spesso ad una registrazione di un comportamento   “privato“, che rivela un’armonia non una conflittualità con il mezzo. Ciò che si percepisce nel cinema di Cassavetes, di Shirley Clarke, è la rottura del diaframma classico fra pubblico e privato, qualcosa che assomiglia, ad altro cinema, Bergman ( Scene da un matrimonio ), Rivette ( l’amour fou ), ma negli americani, mi sembra, c’è maggiore disinvoltura, forse perché, per loro la macchina da presa è uno strumento, integrato nel quotidiano, e può quindi essere incorporato nel privato senza traumi eccessivi. Questa integrazione del cinema alla vita trova un naturale prolungamento, nella biografia, nella scrittura audiovisiva della vita, che senza nessuno sforzo, assume la prima persona singolare e diventa autobiografia. Un’autobiografia che nasce ogni volta che il cineasta è  anche attore ( Welles, Cassavetes, Mailer ) o quando il rapporto tra cineasta e attore assume carattere particolare, da costituire un corpo unico, una “ compagnia “ ( come in Wharol, ma anche John Ford, Renoir, in Cocteau, in Bergman…e in certi rapporti privilegiati: Griffith-Gish, Rosselini-Bergman ).

 I cinediari di Jonas Mekas, che coprono quarant’anni di vita, idealizzano il tempo della memoria ed esaltano l’industribilità dello spirito umano; lo fanno con la purezza antica dell’immigrato, e insieme con la modernità elettrica dell’action camera. Aprà, affianca Mekas e Brakhage imputando a quest’ultimo un’azione ancor più radicale nell’utilizzo della macchina da presa, che si sostituisce all’occhio e al proprio corpo in una mitobiografia perpetua. Brakhage estende il proprio occhio, l’unico di cui abbia esperienza, non solo alla visione esteriore, ma alla visione ottica interiore. La ricchezza del suo mondo visibile, prosegue Aprà, passa attraverso obbiettivi, pellicola esposta alla luce o incisa, disegnata, graffiata. Il cinema è il microscopio e il telescopio di una scienza senza statuto.   Brakhage si apre al mondo con occhio totale. Kubelka, Snow, i cineasti strutturali o concettuali, cercano di vederlo da un buco della serratura, definiscono un elemento di linguaggio e lo spingono al limite.  Per Peter Kubelka, fare cinema vuol dire padroneggiare la natura, creando un universo autosufficiente, più forte della natura stessa perché privo di accidenti. Nel cinema di Michael Snow, che  Aprà  definisce, come un’occhio cibernetico solo apparentemente sottomesso al determinismo della tecnica, dove l’alea, che sembra esclusa per principio dalla legge strutturale, riemerge nei suoi film, quasi a formare una sorta di controcanto ( Wavelenght ). Sostanzialmente Aprà esprime un giudizio non positivo nel caso del cinema strutturale, lo paragona all’esperienza di un guardarsi camminare, per cui il    cinema ( guardando se stesso ) inciampa e diventa spastico e afasico, e testimonia la stanchezza che non è solo del cinema e delle sue storie ma del mondo stesso come fondamento del cinema, e termina la sua ri-flessione, considerando che probabilmente   quella del cinema strutturale è un’esperienza necessaria per tornare a rivedere le stelle. Aprà non considera esaurita l’esperienza americana degli anni sessanta, ma è convinto che debba ancora insegnarci qualcosa, e quella stagione sembra un’anticipazione di approcci e tecniche quanto mai attuali, di cui propone un’elenco.
La nozione di inquadratura, che abbiamo imparato ad apprezzare come di origine teatrale e pittorica, si è dissolta nel montaggio ultrarapido di Brakhage, nell’improvvisazione del cinema diretto, nelle sovrimpressioni calcolate o fatte  in macchina da Kenneth Anger e altri. L’inquadratura non è più un’unità distinta e finita, e solo l’istante spesso impercettibile di un flusso, c’è la perdita del reale verosimile, si insiste sul rettangolo dello schermo. La fotografia, elementi non fotografici, incisioni, graffi, disegni, sovrapposizioni di materiali naturali sopra il supporto di celluloide, ( Brakhage ), ma anche i fuori fuoco, diaframma variabile, velocità di scorrimento, i tipi di negativo o l’invertibile 8 e 16 mm che permettono una maggiore resa di colore . Il movimento di macchina si rinuncia alla testa panoramica, e al binario, in favore degli impulsi della mano,come nell’action painting. Il suono, dalla presa diretta dei documentari, al muto riscoperto di Brakhage e dei concettuali ( il muto è tabù in televisione ), Musiche rumori, over-lapping che fanno da contrappunto alla colonna visiva. Il montaggio sfugge alle classificazioni, rivaluta l’unità minima del fotogramma. La proiezione diventa un campo di ricerca, si trasforma in un   momento ambiguo, si va verso la televisione. Lo spettatore non è più considerato come un’utente passivo, ma come un’individuo differenziato dal pubblico di massa del cinema commerciale, che è motivato, ideologicamente definito. Il filmaker è un cineasta totale che annulla i ruoli definiti dallo studio system, è un one man band, ovvero operatore, montatore,attore produttore e proprietaro del negativo.
  
JONAS  MEKAS  Tecniche cinematografiche che cambiano

Vi sono alcune tecniche che non sono altro che espressioni di sviluppi interiori, e di eruzioni e di cui daremo notizia qui di seguito.
Movimento: il movimento può adesso andare dalla completa immobilità a una vibrante visione offuscata, a un milione di imprevedibili velocità e estasi ( l’opera di Brakhage, ad esempio ). Il vocabolario cinematografico classico ammette ( o concepisce ) soltanto i movimenti di macchina conformi al passo lento e rispettabile da doppiopetto: quell’uniformità, quell’immobilità che viene definita un’immagine “ buona “, “ chiara “, “ regolare “. E’ appunto questa rispettabilità, questa immobilità dello spirito a impedire al cinema europeo, ad esempio, anche a quello migliore, di irrompere in zone di sensibilità realmente nuove, nel nuovo contenuto. Non c’è nulla nel nuovo cinema europeo che non sia stato detto dagli scrittori tanto tempo fa…
Alcuni cineasti hanno liberato il movimento. La macchina da presa può ormai andare ovunque: da una chiara, idillica tranquillità dell’immagine, a un’estasi motoria frenetica e febbrile. La gamma completa delle nostre emozioni può essere registrata riflessa, chiarita se non altro per noi stessi. La macchina da presa può essere febbrile come le nostre menti. Noi abbiamo bisogno di questa febbre per sfuggire da questa pesante pressione esercitata da una cultura sospetta. Non c’è affatto un “ movimento normale” o una “ immagine normale “, ne una “ buona immagine “ o una “ cattiva immagine “ ( non occorre ricordarvi come tutto questo vada radicalmente contro l’estetica approvata dal nostro cinema classico o professionale ).
Illuminazione: adesso può passare dall’immagine “ convenientemente “, esposta e illuminata alla completa distruzione del  “ conveniente “: da una completa bianchezza  ( erosione ) a una completa nerezza ( Blonde Cobra, ad esempio ). Abbiamo ormai a disposizione milioni di sfumature, la poesia delle gradazioni, delle sotto e delle sovraesposizioni. Il che dimostra che ad alcuni di noi sta succedendo qualcosa di buono, altrimenti non ne vedremmo gli effetti al cinema. Questi nuovi avvenimenti del nostro cinema stanno ad indicare che l’uomo sta raggiungendo, sta crescendo in nuove regioni di se stesso, regioni che erano fiaccate dalla cultura o messe in soggezione o addormentate. A quanto ho appena detto aggiungete la più assoluta indifferenza nei riguardi della censura, l’abbandono dei tabù sessuali, linguistici, ecc., e vi sarete fatti un’idea dell’ampiezza e della libertà di ciò che sta accadendo. Un sempre maggiore numero di cineasti si sta rendendo conto che non c’è un solo modo di esporre ( vedere ) le cose; che la regolarità, la nitidezza o la chiarezza, ( e tutti i loro opposti ) non sono virtù o proprietà assolute di alcunché; che in realtà il linguaggio cinematografico, come qualsiasi altro linguaggio o sintassi, è in un flusso costante, cambia con ogni cambiamento dell’uomo. Spesso ignorata, spesso male interpretata, la crescita dell’uomo continua. A volte cresce in silenzio per così tanto tempo che quando questo suo sviluppo si manifesta in un’azione diretta lascia alcuni di noi sconcertati per la sua insolita angelica bellezza.
Jonas Mekas  8 agosto 1963 Movie Journal

STAN BRAKHAGE IN DIFESA DEL CINE-“AMATORE”

Vorrei ri-proporre alcuni momenti di questo manifesto del più visionario autore del New American Cinema:

 […] Dato che questi “film familiari” hanno finito per ricevere apprezzamenti, divenendo un fatto pubblico, io, che li ho fatti, sono stato definito un “professionista”, un “artista”, un “amatore”. Di questi tre termini, l’ultimo – amatore- è quello di cui in realtà mi onoro… sebbene sia il più delle volte usato per criticare il mio lavoro da parte di coloro che non lo capiscono.
[…]”Amatore” (amateur) è una parola che in latino significa “amante” (lover): ma oggi è divenuto un termine come “Yankee” (Amateur – Go Home), covato a scopo critico dai professionisti che tanto poco capiscono il valore o il significato della parola quanto poco hanno stima di essa e di quelli che tra di noi vi si identificano, soprattutto quando pensano di farne un uso spregiativo e disonorevole.
Un amatore lavora a seconda delle proprie necessità (una tendenza tipicamente yankee) e in tal senso si sente a casa dovunque lavori. E se fa del cinema, fotografa ciò che ama o di cui in un certo senso ha bisogno – un’attività sicuramente più reale, e quindi rispettabile, del lavoro compiuto n vista di un guadagno, o della fama, del potere ecc. E soprattutto individualmente di gran lunga più significativa di un impiego commerciale – poiché il vero amatore, anche quando lo fa insieme ad altri amatori, lavora sempre da solo, giudicando la riuscita rispetto al suo interesse nel lavoro, piuttosto che rispetto ai risultati o al riconoscimento altrui. Perché allora i critici, gli insegnanti e gli altri guardiani della vita pubblica hanno finito per usare sprezzantemente il termine? Perché hanno fatto si che” amatore”,” significhi “inesperto”, “goffo”, “noioso”, o addirittura “pericoloso”? Perché l’amatore è uno che  realmente  vive la sua vita – non uno che “compie il suo dovere”- e in quanto tale, esperisce il proprio lavoro, mentre lo svolge, invece che andare a scuola a impararlo per potere passare il resto della sua vita impegnato solo a svolgerlo doverosamente. E così l’amatore impara e si sviluppa di continuo attraverso il suo lavoro durante tutta la vita, con una “goffaggine” ricca di scoperte continue che è bella da vedere – se la si è vissuta e la si riesce a vedere-[…] Amatori e amanti sono coloro che guardano alla bellezza e si rendono simili a essa e quindi dicono che “gli piace”; ma i professionisti, e specialmente i critici, sono coloro che si sentono invitati e in dovere di professare, provare migliorare,ecc. E sono pertanto del tutto estraniati da qualsiasi semplicità di ricezione, accettazione o apertura, a meno d’essere sommersi da qualcosa. La bellezza sommerge solo nella forma del dramma; e l’amore solo quando è diventato possessivo.
[…]Ed ecco che anche il film d’amatore richiama l’attenzione con sistemi che abusano di ciascuno spettatore, lo spingono ad una benevolenza ipocrita, e precludono a qualsiasi reale attenzione- come un balbuziente che può costringere una sala gremita di persone al silenzio mentre si sforza di articolare le parole. Eppure vale molto spesso la pena di aspettare e prestargli attentamente ascolto, appunto perché la sua difficoltà di parola può spingerlo a pensare due volte prima di lottare con l’espressione e può porlo in condizioni di parlare solo quando ha qualcosa di assolutamente necessario da dire. Naturalmente non “professerà” mai e risulterà così, automaticamente, un amante del linguaggio parlato.
[…]Vorrei vedere film “grassi” portare il proprio peso di significato e montaggi “balbuzienti” riflettere il pieno significato della ripetizione; gli atti di “mis-take” (gioco di parole su mistake=errore e take=ripresa)come passi integrali nella ripresa del film.
[…]Quando un amatore fotografa scene di un viaggio, di un party, o di altre speciali occasioni, e specie quando sta fotografando i propri figli, sta innanzi tutto cercando di far presa sul tempo, e , in ultima analisi, sta tentando di sconfiggere la morte. L’atto del fare cinema può quindi essere considerato nel suo complesso come una esteriorizzazione del processo della memoria.
Hollywood, nota anche come la “fabbrica dei sogni”, compie drammi ritualistici per celebrare la memoria di massa (molto simili ai rituali delle popolazioni tribali) e film propiziatori che cercano di controllare il destino della nazione proprio come le tribù primitive versano l’acqua al suolo per far venire la pioggia. E fanno drammi sociali” o “seri”, con grande rischio commerciale per l’industria, e con un atto di sacrificio corporativo non dissimile dalle pratiche di autotortura a cui si sottopongono i sacerdoti per placare gli dèi. In tal modo tutta l’industria commerciale ha creato una pseudochiesa  il cui dio è la psicologia di massa e il cui antropomorfismo consiste nel pregare (“Ccompralo, ora!”) e predare ( sondaggi,ecc.) il maggior numero di persone, come se il destino fosse, per ciò, prevedibile e o potesse essere controllato per mimesi..
L’amatore, invece, filma persone, luoghi e oggetti del suo amore come pure gli eventi della sua felicità e quelli di importanza personale che può agire direttamente e soltanto a seconda dei bisogni della memoria.[…]Per questo io credo inevitabile che qualsiasi arte del cinema debba nascere dall’amatore, dal medium del cinema familiare, e credo inevitabile che il cosiddetto cinema commerciale, o rituale debba prendere esempio dal film degli amatori piuttosto che il contrario, come purtroppo spesso è il caso di questi tempi.  (In defense of the “amateur” filmmaker,in “film-makers Newsletter”, vol.4, n.9-10, luglio-agosto 1971; scritto attorno al 1967)

 

EGOPRODUZIONI O CINEMA PRIVATO

All’interno di produzioni di tipo familiare ci sono le produzioni realizzate da un membro della famiglia che si vuole esprimere come soggetto individuale. Odin suggerisce la definizione di “Ego produzione”. Questo tipo di intervento è all’opposto del film domestico.
La prima differenza, è rappresentata dal fatto che esse sono prodotte da un io. Il regista di un home movie per esprimersi al meglio non deve esprimersi individualmente: se racconta una storia, se fa un montaggio, il film non è più un home movie. Il film familiare non deve raccontare niente, non deve escludere nessun membro della famiglia, poiché se ciò avvenisse, verrebbe considerata come un’amputazione del corpo stesso degli altri componenti. Più un film di famiglia risulta formalmente scorretto, frammentato, più funziona e realizza la sua missione. Il ricercatore francese porta l’esempio di un film A song  of Air, di Marilee Bennett ( 1987 ), con lo scopo di dimostrare due aspetti. Da una parte gli effetti che un film domestico ben fatto ( mal fatto ) può produrre sul corpo dei familiari, dall’altra il film come  una possibilità  di ego produzione:
 
Il film si presenta sotto forma di lettera indirizzata da Marilee  al padre. Un testo scritto a mano da Marilee ci informa all’inizio del film che le immagini di questo film-lettera, sono i film girati dal padre, il reverendissimo Arnold Lucas Bennett che filmò la famiglia dal  1956 al 1983.         Dalle immagini proposte è evidente che il padre di Marilee era un buon cineasta… immagini pulite, addirittura vere e proprie messe in scena. “ Durante le vacanze, ci riuniva tutti per recitare nei suoi film. Simulavamo partenze per le vacanze con scene di adii in cui si vedeva l’auto partire ed allontanarsi “. Il padre creava delle sceneggiature che avevano “ tutte lo stesso soggetto: una famiglia minacciata da un pericolo esterno” “ recitavamo le nostre vite sotto la sua regia…” Delle immagini girate in automatico ci mostrano il padre circondato dalla moglie e dai figli, che tiene stretti a sé, sotto l’ala protettrice delle sue grandi braccia,continuamente invitati a guardare in macchina. Guardare la macchina da presa è come guardare nella stessa direzione e testimoniare l’unità del nucleo familiare. La forma qui risponde rigorosamente all’intenzione di fondo… Immagini dell’ordine familiare che il padre, battista convinto, fa regnare in maniera intransigente all’interno della famiglia…-” La domenica dopo il tè, guardavamo dei film, ci guardavamo crescere giorno dopo giorno”- ci viene rivelato dal testo della lettera letta da una voce fuori campo: è il racconto della ribellione di Marilee, contro l’ordine familiare e contro i film che ne sono al tempo stesso il riflesso e l’agente. Marilee racconta al padre il suo desiderio di avvelenarlo, gli spiega perché si è buttata in una vita esattamente all’opposto di tutto ciò ( com’è diventata cameriera a seno nudo in un bordello, come si è prostituita e drogata )…Alla fine del film Marilee si riconcilia col padre.

La prima differenza tra ego produzioni e film di famiglia, all’interno del lavoro di Marilee, è la riappropriazione del materiale girato dal padre. I film del padre vengono riattualizzati, destrutturati, sporcati, ri-montati, ( la violenza esercitata dal padre con un film di famiglia mal fatto ), solo un’altra violenza può ricucire lo strappo, la violenza in questo caso è artistica.
Odin sottolinea la seconda differenza tra ego produzioni e film di famiglia: le Ego produzioni non esitano a mettere in scena quello che il film di famiglia vuole nascondere, i conflitti familiari, le intimità, l’esplorazione di corpi, il sesso.
La terza differenza nelle Ego produzioni c’è il desiderio da parte del cineasta di esporre il proprio privato oltre l’ambito familiare, di comunicare con un pubblico.
Lo studioso francese classifica tre strategie di comunicazione, nell’ambito delle ego produzioni nel momento in cui irrompono  nel pubblico.
La prima che Odin definisce comunicazione strettamente egocentrata, si riferisce all’esempio di A Song of Air, in quanto trattasi di una  sorta di terapia psicoanalitica, il pubblico funge da intermediario, ( go-between tra i due io ), e l’io enunciatore mira a ricostituire l’io della persona reale: il soggetto.
La seconda strategia comunicazionale e quella della testimonianza, Odin cita il caso di Jean Pierre Gaudin autore di Laurent et Stéphane, le riprese dei due suoi figli colpiti da Aids in un caso di malasanità. L’io si trasforma in un tu o più esattamente in un Voi con un obbiettivo sociale, politico. Il film domestico si trasforma in un grido pubblico.
Terza manifestazione comunicazionale, un membro di una  famiglia si serve di una produzione per comunicare attraverso uno spazio pubblico, per comunicare con uno o altri membri della stessa famiglia. L’enunciatore è un io che si rivolge ad un Tu familiare, attraverso un Voi. Odin cita il caso di René Lange che realizza Omelette per rivelare alla famiglia la sua omosessualità. Con una cinepresa super 8 Réne Lange riprende , la nonna, la madre la sorella, il padre, mentre comunica la notizia.

PELLICOLA – VIDEO

Odin  riconosce nel video una predisposizione più spiccata per le Ego produzioni, rispetto al film ( telecamera, pellicola ). Il video sembra più portato all’esplorazione dell’intimo. A parte la tradizione del cinema pornografico amatoriale ( indagine nell’intimo ) vecchia come il cinema, questo fenomeno con il video si è moltiplicato, in modo trasversale.  Sottolinea Odin che le produzioni video, in ambito familiare, sono più Ego centrate rispetto alle stesse realizzate in pellicola ( più centrate sulla famiglia)
Patricia Zimmerman afferma che l’estinzione della famiglia borghese, avviene con l’ingresso del video. Il ricercatore francese nel tentativo di giustificare questa tendenza della soggettivizzazione del digitale rispetto all’analogico, traccia alcune ipotesi. La prima ipotesi è di natura pratica e di suggestione pubblicitaria, con la video camera è più facile riprendersi.  In una pubblicità di una videocamera, una donna si autoriprende, all’opposto la campagna di lancio dell’8 mm un uomo riprende la propria famiglia. Il secondo punto vede il video più vicino al linguaggio verbale, il linguaggio verbale è più vicino all’intimo. La videocamera oppone meno resistenza all’utilizzo della parola, cioè è più facile parlare in un video.  Spesso un videoasta, durante le riprese parla da solo, di ciò che vede di ciò che prova, la voce del regista è una caratteristica fondante della soggettivizzazione; Odin, pur non volendo trarre delle conclusioni affrettate, propone una similitudine, così come posso parlare quando lo si desidera, con la videocamera posso girare quando lo si desidera, cioè ci sono meno limiti del cinema. Nella prassi orale certi errori del linguaggio sono accettati, nel video si accettano le sgrammaticature cinematografiche ( lunghe inquadrature, i mossi gli sfuocati, gli audio confusi ). Ma la parte che Odin, ritiene più importante è il dispositivo inedito del videoregistratore-televisione.
Il rito di vedere una videocassetta è diverso dal vedere un film di famiglia con il proiettore, lo schermo ecc..  Per vedere un video basta inserire una videocassetta o nel videoregistratore o dentro la telecamera; questa  riduzione, per Odin, rappresenta una banalizzazione dell’atto della visione. Il collegamento video-televisione, fa si che le produzioni familiari video siano  mostrate in pubblico, più facilmente dei film. Il videasta amatoriale è omologato dalla pedagogia dell’immagine che viene dalla televisione, è portato a girare immagini secondo formule televisionali, per cui anche quando riprende la famiglia è più portato ad agire da reporter.  Lo studioso francese riassumendo vede una tendenza, nelle produzioni familiari, ad essere  più orientate dentro il mezzo televisivo che dentro l’istituzione familiare. Quindi le tre strategie comunicazionali di cui sopra: terapia psicoanalitica pubblica, la testimonianza, il messaggio personale pubblico sono entrate dentro le trasmissioni televisive, talk show, reality show, magazine ecc. Più esattamente Odin vede in tutto ciò un doppio movimento in atto nella società: un movimento di privatizzazione dello spazio pubblico e un movimento di pubblicizzazione dello spazio privato. Questa situazione comporta una prevedibile difficoltà nel fingere che esistano delle certezze, che tradotto in termini di produzioni familiari, come risposta alla crisi in atto diventa: evitare di parlare dei problemi, evitare di porre interrogativi, esporre la parte più intima di se come forma di protezione e coinvolgendo gli altri nei propri problemi.

 

CINEMA PRIVATO

Utilizzo la spiegazione del termine cinema privato, così come viene illustrata sul sito www.homemovies.it:

con il termine “cinema privato” si intende individuare quell’insieme di materiali audiovisivi del passato e del presente che nascono al di fuori dell’industria cinematografica e televisiva. Una produzione quella “privata”, determinata esclusivamente da una personale intenzione espressiva e/o documentaria. Si allude a quell’universo eterogeneo degli home movies, film personali e diaristici, autobiografie, rielaborazioni di memorie filmiche familiari proprie o altrui, forme ibride tra queste e molto d’altro, un cinema documentario anche inconsciamente caratterizzato da uno sguardo forte e diretto sulla realtà. Un cinema reso possibile dall’attuale accessibilità alle tecnologie digitali.

Dal 10 al 15 novembre 2005, nelle città di Siena, Firenze e Pisa, è stato organizzato un festival-convegno dal titolo Giornate del Cinema Privato – Percorsi d’espressione e di memoria. La manifestazione è stata l’occasione per presentare video, incontri con autori, studiosi e critici e cercare di fare il punto di una prassi produttiva emergente, vasta, complessa ed eterogenea. Tra gli studiosi  che sono intervenuti nel dibattito, tra i più importanti del panorama europeo e nazionale, volevo riportare l’intervento ancora di Roger Odin dal titolo dal film di famiglia al cinema privato. Nell’intervento  egli vuole dimostrare la connessione che esiste  tra il film di famiglia e il cinema privato, (che  in un altro contesto ha definito come ego produzioni). Riassumendo i concetti fondamentali della produzione di un film di famiglia, Odin ricorda che un film di famiglia non vuole essere un film per il cinema,l’autore del film di famiglia non esiste oppure è la famiglia stessa. Colui che gira il film non deve esprimere un punto di vista personale, quindi la struttura del film di famiglia non ha niente di narrativo, poiché la finalità del film di famiglia è di ricostruire con i membri della famiglia, attraverso un processo di comunicazione, quello che il film racconta parzialmente e in malo modo, permettendo di fatto questo processo comunicativo interno ai membri della famiglia. Questo processo di comunicazione interno alla famiglia, ha un doppio movimento, da una parte c’è la ricostruzione collettiva del mito della famiglia, e dall’altra una ricostruzione individuale, in cui ciascuno lavora sulla propria interiorità. Il punto di vista  individuale molto spesso non coincide con le immagini che vengono rappresentate e non è necessario trasmetterlo agli altri membri della famiglia. Il film di famiglia è la cosa meno privata che esista, assomiglia molto all’album fotografico in cui l’aspetto privato è rappresentato dall’osservatore. E’ lo spettatore che definisce il film di famiglia in quanto privato, cioè la sua destinazione d’uso. La cosa meno importante del film di famiglia è il film stesso, in quanto molto spesso i film di famiglia non sono stati rivisti, la sua funzione aggregativa si esplica nell’atto di filmare.
L’esperto francese al termine di questo elenco di condizioni vuole dimostrare quanto il film di famiglia dimostri di  non essere cinema. E solo da un lavoro postumo sul materiale di famiglia che si può estrarre quello che c’è di privato, qui è lo scatto con cui il film di famiglia diventa cinema. Molti cineasti prosegue Odin, utilizzano il film di famiglia, ma per riutilizzarlo, per farlo parlare, lo si deve in qualche modo “toturare”, rivedere il film, le inquadrature rimontarlo. Allora dopo questo lavoro può venire alla luce il privato nascosto dietro lo stereotipo. Odin cita il cineasta ungherese Pèter Forgàcs – il lavoro del quale era  inserito nel programma del convegno - come un esempio di questo modo di intervenire sul film di famiglia, per cui riesce a far emergere ciò che si cela dietro le immagini stereotipate. Come fenomeno di classe, intorno agli anni ’50, sono le famiglie borghesi che realizzano film di famiglia. I film di quel periodo riutilizzati non appartengono più a quella categoria, sono dei film di famiglia lavorati per far riapparire ciò che il film di famiglia nasconde.
Lo studioso francese sintetizzando, dimostra,  partendo dal film di famiglia fino ad arrivare al lavoro sul film di famiglia che si vuole mostrare l’aspetto privato, proprio  partendo da ciò che si nasconde all’interno del film domestico per arrivare a parlare del cinema privato.
Il cinema privato è la negazione del film di famiglia e Odin  ne elenca tre punti fondamentali:
1  Colui che fa del cinema privato vuol fare cinema
2 Colui che fa del cinema privato si considera a tutti gli effetti come autore che si vuole         esprimere

  1. Colui che fa del cinema privato fa un film con il quale entra in comunicazione con i suoi spettatori

Il cinema privato è in qualche modo una derivazione del film di famiglia, che porta la sua tematica dentro il cinema privato. I soggetti sono i compleanni, feste, i matrimoni, le nascite, si parla della vita del nucleo familiare. Sono le stesse tematiche del film di famiglia ma elaborate in modo diverso.
Lo studioso francese sottolinea le differenze tecniche, ovvero delle tecniche di ripresa di un film privato, rispetto ad un home movie. Prima di tutto nel cinema privato esiste una volontà nello sguardo di chi girà il film, volontà che deve essere completamente assente nel film di famiglia. Un’altra condizione è quella estetica del malfatto, della sfocatura, delle cattive inquadrature, del mosso, tipiche del film di famiglia:  tutte cose che sono considerate errore nel cinema fiction, ma che nel cinema privato diventano una condizione positiva, caratterizzante, forte ed espressiva. Attraverso l’utilizzo del mal girato si evidenzia la plasticità dell’immagine. Questi errori involontari nel film domestico, divengono intenzionali nel cinema privato. Secondo Odin questa scelta non avviene durante le riprese ma durante il montaggio, in quanto l’autore decide di mantenere e confezionare gli errori del girato. Un altro punto sottolineato dall’esperto francese, lasciato in eredità dall’ home movie al cinema privato è rappresentato dalla presenza dell’autore sotto la forma di movimenti della mdp, sia nel film di famiglia che nel cinema privato si avverte la presenza fisica dell’autore, la sua interazione con le persone filmate.
L’ultima parte dell’intervento di Odin è dedicata all’aspetto dell’autenticità, che secondo lo studioso, è una verità soggettiva, intima, ovvero la confusione che a volte si genera confondendo un livello di autenticità con la verità. Secondo Odin ci sono casi in cui uno spettatore potrebbe trovarsi in relazione emozionale molto forte con ciò che vede dimenticando di porre delle domande al film in merito alla sua verità. L’esperto francese conclude osservando che secondo lui il miglior cinema privato è quello che riesce a mantenere l’equilibrio tra un forte impatto emotivo e un altro momento di distanza in cui lo spettatore possa riposare e porsi delle domande.

 

CINEMA PUBBLICO CINEMA PRIVATO, CONSCIO INCONSCIO
 
 All’interno del convegno sul cinema privato c’è stata la partecipazione di un altro esperto: Adriano Aprà, del quale vorrei riportare la trascrizione di una parte della video-intervista realizzata da Luca Ferro promotore della manifestazione le Giornate del Cinema Privato a Siena nel novembre 2005:

La distinzione cinema pubblico, cinema privato, significa distinguere due campi; quello evidente, che nasce all’interno dell’industria, con fini commerciali anche se poi le opere possono essere artistiche; un altro che è enorme, ma sommerso che comprende  non soltanto il cinema familiare o home movies, ma tante altre cose. Immagini e suoni che vengono prodotti al di fuori del meccanismo pubblico (nel senso che si prevede che c’è un vasto pubblico che lo andrà a vedere). Un pubblico c’è sempre, il problema è che può essere  un pubblico specializzato. Il campo è enorme e merita un’indagine, perché effettivamente se ne sa molto meno, rispetto al cinema industriale e soprattutto al di la dell’informazione non c’è una riflessione. Io occupandomi, non tanto di home movies anche, quanto di cinema che non sa bene come definirsi, chiamiamolo  non-fiction, mi sono reso conto come l’estetica che si può dedurre da questo cinema, consente di vedere diversamente il cinema main stream, e questo è molto interessate. E come se il documentario, la non-fiction, fosse l’inconscio del cinema pubblico, si esibisce, ma al proprio interno, le contraddizioni, i lapsus, le varianti storicamente rilevanti tenessero conto di questo sommerso che in alcuni casi viene fuori. Il segno dell’artista è sempre  qualcosa che noi critici storici andiamo a leggere contro le apparenze, almeno dovremmo leggere dove altri non leggono e quello che si legge è ciò che non è la codificazione del linguaggio, almeno io così faccio. E sembrano altre cose, io sento che c’è anche questo elemento. Ovviamente il cinema privato ha condizionamenti diversi da quelli del cinema industriale, questi condizionamenti possono essere assunti come tali, oppure combattuti. Uno può voler fare come fece Nanni Moretti con Io sono un autarchico, un film in super 8 che in realtà si sente che voleva essere in 35 mm; donde un elemento un po’ spurio, cioè c’è qualcosa che non funziona. Ma ci può essere anche Rosselini che fa Siamo donne, con Ingrid Bergman in 35 mm, con lo spirito dell’home movie, e già la cosa diventa molto più interessante, però è chiaro che sono delle eccezioni, allora l’artista è qualcuno che apparentemente assume determinate regole, ma poi sotterraneamente le contraddice. Mi viene n mente qualcosa che mi raccontò Mario Camerini tanti anni fa, per cui io gli chiesi come mai i suoi film del dopo guerra sono così meno interessanti dei suoi film fatti durante il fascismo, con quindi censure molto rigide. “Ma perché io mi divertivo di più ad aggirare subdolamente dei canoni che non erano solo di censura erano anche di linguaggio cinematografico, quando si poteva dire tutto c’era meno gusto”  che poi è il problema per cui un cineasta come Hitchcock, ha tardato tanto ad essere vissuto come autore, perché nessuno aveva pensato che dietro la maschera ci fosse un altro discorso.
Ci si era limitati alla maschera.Il motivo per cui se tu fai un film impegnato sembra più serio di una commediola che caso mai in se contiene tutta una serie di metafore. Quell’inconscio che viene fuori attraverso lo stile, questo significa anche che nel momento in cui io vedo un film a basso costo o un film ad alto costo che può andare dal kolossal al film familiare, non mi pongo problemi diversi. Naturalmente devo avere coscienza delle caratteristiche tecniche che condizionano quel modo di fare, perché sono opere pur sempre, ma in ogni caso con condizionamenti diversi. E’ evidente che il cinema ad alto costo ha avuto delle varianti nel momento in cui la tipologia delle macchine da presa è cambiata, quando il modo di registrazione del suono è cambiato e bisogna tener presente questi fattori per capire perché si faceva così e poi si è fatto cosà. Lo stesso problema che si pone nel momento in cui si passa nel cinema a bassissimo costo home movie dal 9,5mm, 16mm, 8 mm, super 8 e il video e che cosa cambia questo. Anche se l’artista non si è mai lasciato condizionare da queste cose,  perché la storia del cinema è piena d’eccezioni.  Come mai questa cosa che tecnicamente non si poteva fare è stata fatta? Perché quello la voleva fare a tutti i costi, nonostante gli impedimenti la fatta  così come nonostante gli impedimenti della censura ci sono dei film…, ma come non c’era quella norma, come ha fatto a far vedere quella cosa che non si poteva vedere? La voleva talmente tanto che avrà fatto qualche cosa per poterlo ottenere.
…Vertov ha fatto un film in presa diretta negli anni ’30, (uno dei rari casi di presa diretta in quel periodo). Vuol dire che si è posto un problema. La maggior parte degli altri vuol dire che non si è posta il problema ha accettato  i condizionamenti e quindi l’ha fatto con la voce fuori campo, più o meno bene secondo i casi.
…Non è che piccolo è bello rispetto a grande: è bello dipende, dipende sempre. Questo sollecita chi se ne occupa, a non partire dalla pregiudiziale: noi marginali siamo poveri e quindi tutto diventa più interessante; che era un po’ l’equivoco che c’era nell’underground americano, secondo me, dove non si volevano fare selezioni, perché c’era bisogno comunque di far vedere…Si, fino ad un certo punto va bene, però poi ci sono i brutti film sperimentali, ci sono i brutti film narrativi, ci sono i brutti home movies, ci sono gli home movies belli. Si può schematizzare così: il cinema narrativo è un cinema alla terza persona, loro fanno questa cosa, e questo limita la possibilità di espressione dell’uomo, che non può dire, già è difficile dire tu stai facendo questa cosa, figuriamoci poi dire  io. Perché il cinema narrativo è in terza persona, se non addirittura impersonale, si fa così…Certamente un limite, è come se io dovessi per forza scrivere un romanzo nascondendomi, è un modo, uno stile, però il fatto che non si possa fare altrimenti, se non in maniera molto eccezionale…Dall’altra parte improvvisamente si è liberata la possibilità di parlare in prima persona. Questo ha enormemente aumentato la possibilità di dire. Con le immagini e con i suoni si sono aperti dei campi vastissimi e che ancora non sono stati codificati è difficile mapparli, capire quello che è. Ma tutto questo è successo in maniera rilevante secondo me, …negli anni ’80, in maniera ampia, ci sono al solito degli esempi precedenti, ma che erano eccezionali. Dagli anni ’80 in poi questa cosa è diventata abbastanza diffusa soprattutto nel cinema di non-fiction….E’ straordinario, perché le grandi novità, secondo me, il nuovo cinema. ..Quando io facevo Pesaro, io davo larghissimo spazio alla non-fiction, perché era lì che secondo me,si manifestava il nuovo. Quando dico conscio inconscio che sono pur sempre delle metafore però è chiaro che l’io è più inconscio che non il discorso del loro.

MICHELANGELO BUFFA

Nel gennaio 2006 ho video-intervistato Michelangelo Buffa, al quale ho fatto alcune domande sul suo percorso di cineasta, su alcune opere della sua produzione e sull’evoluzione della sua poetica. Buffa, classe ’48, si avvicina al cinema con una passione “doppia”, da una parte la passione per il cinema proiettato, una passione istintiva immediata  dall’altra subisce il fascino per la macchina da presa. Un’attrazione verso la mdp, per l’oggetto meccanico e misterioso, che diventa molto presto il piacere di riprendere, il piacere di possedere un mezzo che  permette di ricreare  la vita. Il momento in cui Michelangelo riceve dal padre la prima macchina da presa è all’età di quattordici anni (una Bolex Paillard 8mm a fuoco fisso). Per Buffa il fatto di possedere una mdp,  rappresenta «la compagna della sua vita, il suo terzo occhio» un’occhio  privilegiato con il quale osservare il mondo, ma soprattutto se stesso. In questo primo periodo, introspettivo e autobiografico (come viene definito dall’autore), inizia a auto-filmarsi, si racconta le proprie angosce esistenziali, il proprio disagio giovanile i propri sogni. Questo primo periodo ben si rappresenta nel film Alphaville ,di cui la scheda redatta dall’autore, dice:

ALPHAVILLE
1972-2000,8mm-MINIDV.B/N-COL.39’
MICHELANGELO BUFFA

 

L’attuale Alphaville è per così dire un ibrido: ha un corpo in pellicola 8mm colore e bianco e nero(girato con due 8mm Bolex Paillard di cui una con zoom e con possibilità di fare sovrimpressioni e dissolvenze) ed un’ampia premessa attuale girata con videocamera digitale. In origine il film in 8mm era muto e come titolo aveva: Il dio, il diavolo e l’angelo nella terra di Alphaville; ed era dedicato a “pochi intimi cinefili” !
Già il titolo rimanda al mondo del cinema vissuto da me in quegli anni in una dimensione totalmente cinefilica ( almeno tre film ogni giorno per alcuni anni, esclusi sabato e domenica). La “terra di Alphaville” è  “ il “ Cinema, che a quei tempi coincideva simbolicamente col cinema o metacinema di J.L.Godard, colui che ha reinventato, forse per l’ultima volta , il cinematografo. Il mio 8mm contiene appunto immagini da l’Alphaville di Godard, come citazione amorosa in movimento immersa in un mare di altre immagini cinematografiche (foto) riprese da riviste, essenzialmente dai Cahiers du Cinema, rivista cult del periodo, da me letta, tradotta, studiata negli anni settanta.
Il dio, il diavolo e l’angelo sono un riferimento emblematico all’altro polo fortemente ideologico del periodo: la lotta di classe, la lotta di liberazione…e quindi l’impressionante mitico ed arcaico cinema di Glauber Rocha, simbolo del risveglio del “terzo mondo” .
Il mio Alphaville quindi è un groviglio di tensioni dove mescolate fra loro troviamo la cinefilia totalizzante, le simpatie politiche e rivoluzionarie, le angosce esistenziali striscianti, l’esistenzialismo ribelle, l’onirismo psicoanalitico….è per tutti questi aspetti che lo amo molto, che lo sento profondamente mio e che lo considero in un certo senso il mio “capolavoro”! Un film fatto quasi in stato di trance!
Quasi tutto il film funziona su immagini doppie, sovrapposte, per una ragione inconscia e pratica: da un lato avevo poca pellicola e volevo girare molto quindi (l’8mm lo permetteva perché la pellicola si presentava in piccole bobine che potevi reimpressionare, cosa non possibile col Super8 la cui pellicola si presentava chiusa dentro caricatori di plastica) reimpressionavo la stessa pellicola a volte creando consapevoli immagini sdoppiate, altre volte impressionando immagini su immagini il cui rapporto diretto era spesso casuale pur fermo restando il tema di fondo, ma inconsciamente era il mio tormentato sdoppiamento che volevo rappresentare, questo mio conflittuale amore-odio per il cinematografo: lo amavo perché era per me un territorio omnicomprensivo, tutta la realtà veniva da me decodificata, letta attraverso le immagini del cinema, dall’altra però il cinema mi privava delle materialità del reale, mi toglieva quella vita che “sognavo” nella sala buia.
Per questo il mio Alphaville è un film tragico che non potevo non finire con una morte ( una morte citata da un film di Franju,  L’amante del prete).
Dopo aver ritrovato il film attraverso la riedizione in digitale è nata subito la necessità di musicarlo con una musica amata in quel periodo che mantenesse il film in quella dimensione ossessiva che è sua propria. Nello stesso tempo ho sentito il bisogno di fare questa attuale premessa/introduzione che inquadra il film , lo giustifica, lo mette a distanza, non senza un filo di nostalgia per quella pellicola che oggi non c’è più e da un punto di vista autobiografico/esistenziale questa premessa crea continuità e discontinuità nel medesimo tempo! Discontinuità nella dimensione mentale ( oggi la mia posizione è più contemplativa, armonica, centrata…) ma continuità nella pratica filmica( come prima oggi continuo ad autoriprendermi, ad usarmi come attore di me stesso in un gioco che non sembra finire). (Buffa)
Inedito nello stato attuale, solo la parte più antica in 8mm proiettato ad Ivrea una ventina di ani fa nel corso di una grande esposizione non accademica.

Buffa nell’intervista afferma che per i primi anni andava al cinema senza una dimensione critica. La dimensione critica è stata  acquisita attraverso un coetaneo cinefilo, che lo ha introdotto alla lettura delle immagini, alla lettura simbolica e critica dei film, alla lettura di riviste di cinema. Da quel momento  la  passione si sviluppa cresce si consapevolizza, una passione che   lo porterà ad esercitare l’attività di critico, condotta per alcuni anni sulle pagine di Filmcritica e su altre riviste cinematografiche.

Vedere film, amare il cinema e scrivere di cinema ad un certo punto diventò una cosa sola: scrivendo ripensavo il film nel contesto del cinema, ne rileggevo i tratti lo analizzavo; scrivere aveva una funzione razionalizzante, edificante (edificava la mia consapevolezza del linguaggio filmico). Anche qui all’inizio non scrivevo che per me stesso, per approfondire e rispondere alle domande che ogni film mi poneva… solo più avanti, diventando consapevole che essere pubblicato su di una  rivista  specializzata significava essere letto, mi posi nelle condizioni di colui che aiutava a capire e ad approfondire il senso di un’opera. (Buffa)

Probabilmente prosegue Buffa, l’autore che più lo ha influenzato è stato John Ford,  ma anche il New American Cinema, ricchissimo di stimoli e di invenzioni, «è stata la felice scoperta di un mondo nuovo liberato e liberatorio»

Se il cinema industriale era il sogno codificato i film underground americani rappresentavano la fuoriuscita dagli schemi, si era nella concretezza pura della pellicola: impressionata, bruciata, rigata,rallentata...ecc.. La sperimentazione regnava e a volte era pura poesia . Era un cinema fatto in casa per gente di casa, cerchie di amici, film prossimi ai corpi, alla vita quotidiana, erano i documentari di se stessi anche quando erano finzione, gli autori erano tutti uomini “con la macchina da presa”. Ogni evento nella vita dell’autore lasciava una traccia sulla pellicola che era spechio di pensieri, emozioni dirette.
L’immagine che ho ancora di loro è di libertà creativa incondizionata e amore vero, incarnato, per il cinematografo.
Colui che faceva il film era anche colui che prendeva in mano la cinepresa, c’era unità di corpi e d’intenti un solo respiro. (Buffa)

. Nel cinema più attuale i riferimenti di Buffa sono i film di Straub-Huillet.  Buffa privilegia  un tipo di inquadratura di derivazione fordiana  tipicamente cinematografica, poco usata nel video (il video è più fluido), un’inquadratura vissuta come  « spazio simbolico della rappresentazione». Buffa  è da subito consapevole di fare del cinema, non un cinema dei grandi, professionale, commerciale, ma un cinema che lui definisce «tascabile ad uso e consumo di me stesso» (Buffa). Un cinema tascabile, immediato, pronto all’uso, istantaneo, del quotidiano, con la camera in tasca. Buffa nel modo di effettuare le riprese, non pensa ad un pubblico. Nella realtà autoriale di Buffa non c’è stato un movimento verso lo spettatore, lo spettatore entrava in gioco casualmente, quando qualcuno chiedeva di vedere la sua produzione. Secondo l’idea di questo autore è lui stesso l’unico spettatore di se stesso, i suoi film sono un residuo della sua vita, delle sue emozioni, una traccia di ciò che resta, del tempo che passa, una visione privata che non necessariamente deve interessare qualcun altro. «Filmo per me, non ho mai pensato allo spettatore, non ho mai pensato di saper o dover raccontare storie a qualcuno» (Buffa).
Nel secondo periodo intorno agli anni ’80 c’è una modificazione «mi sono messo a guardare gli altri affascinato dagli altri, dai volti. Da questi esseri che io facevo parlare ma che in realtà non ascoltavo affatto. Ciò che mi interessava era il piacere di guardarli esistere davanti alla cinepresa.» (Buffa). Lo spettatore lentamente entra nell’inquadratura, ma solo apparentemente, perché quell’immagine degli altri può essere più facilmente condivisa. Nell’opera di Buffa ogni film è un frammento di un film più grande, parti diverse di uno stesso film che è la storia della vita dell’autore. Una vita in cui entrano ed escono personaggi, il tempo, le cose che cambiano. Una vita di cui il film è il residuo, quello che resta, che si ingrandisce si gonfia, ma è sempre la stessa storia  che in fondo non ha bisogno di nessuno spettatore. Buffa come tratto costante della sua pratica di film-maker, rivendica sempre il piacere di filmare senza secondi fini, solo seguendo il proprio istinto, il desiderio, il piacere di filmare. Di questo secondo periodo, più rivolto verso l’esterno verso la realtà, verso gli altri ci sono due esempi  Andy Warhol’s Films e 8 Volte Godard di cui la scheda redatta dall’autore:

Andy  Warhol's films e 8 volte Godard sono due Super 8 (girati con una cinepresa Nizo sonora) realizzati agli inizi degli anni 80,subito posteriori a Coppie, che appartengono al periodo, successivo a quello decisamente autobiografico, dedicati alla scoperta degli "altri". Uscendo dal mio egocentrismo esistenziale avevo voglia di incontrare gli altri da me: in particolare ero attratto dai volti, dagli occhi, volevo filmare l'Essere che era in loro, tentare di riprenderne l'anima.
Operazione perdente fin dall'inizio eppure la tensione verso quell'obbiettivo era fortissima.La preparazione era faticosa ed estenuante: bisognava convincere i soggetti a mettersi davanti alla cinepresa, fissare incontri, appuntamenti, cogliere al volo l'occasione. Li osservavo come fossero insetti, mi annientavo di fronte a loro, passiva la cinepresa registrava la loro presenza, le loro reazioni, il loro imbarazzo. Non potevo svelare loro il vero scopo della ripresa perciò ho escogitato dei pretesti che mi interessavano ben poco rispetto al mio obiettivo primario che era appunto quello di coglierne l'essere. Il pretesto per Andy Warhol furono appunto i film di A.W. che all'epoca quasi nessuno conosceva anche perchè lo stesso Warhol, ancora in vita, era poco noto, non era ancora l'icona oggi nota quanto Picasso!
Così molti inventano, immaginano...ma ciò che mi attraeva di più era il momento in cui cessavano di parlare e restavano interrogativi di fronte alla macchina da presa che inspiegabilmente(da loro punto di vista) continuava a riprendere.
Speravo si creasse un buco, una fessura per arrivare all'anima...ma nessuno ha mai sopraffatto la cinepresa, l'ha annichilita col suo Essere...sono tutti restati inermi nella loro impotenza, nei loro limiti che a quel punto io volevo cogliere non senza un certo sadismo: così li volevo amare ma finivo quasi col disprezzarli! Uno degli ultimi soggetti ripresi non ha da dire nulla, così per "segnare" il senso del film, gli propongo di ripetere questa frase: " Sono uno spirito incarnato".
Stesso discorso vale per 8 volte Godard: qui il pretesto erano otto dichiarazioni su Godard espresse da otto registi italiani. Ho così messo in bocca ad amici e conoscenti queste otto dichiarazioni lasciandoli liberi di giocarsele come pareva loro.
Tecnicamente i due Super8 sono difettosi soprattutto nel sonoro, aspetto che curavo poco anche perchè dovendo controllare molte cose insieme e lavorando da solo( non ho mai provato desiderio nel lavorare con altri anche perchè¨ ancora identificavo il punto di vista della cinepresa come il "mio" punto di vista, il mio occhio!) e dovendo appunto cogliere il momento al volo finivo col dimenticarmi sempre di qualcosa, per esempio lo stato delle batterie del microfono o della cinepresa! Ma in fondo questo non mi ha mai preoccupato molto: non ho mai cercato la perfezione tecnica né  tantomeno la trasparenza, per quanto adorassi sentire la presenza del reale in proiezione. Mi è sempre bastato sapere di essermi avvicinato alla realizzazione dell'idea che avevo in mente se poi quest'idea non era perfettamente trasposta non ne soffrivo, l'idea comunque veniva espressa.
Che si senta la pellicola, la materialità  dell'immagine, questo mi piace.
Questo passaggio all'osservazione degli altri coincide con l'abbandono molto sofferto del film muto.Acquistando la Nizo sonora la mia domanda angosciosa era: ..ed ora quali parole, quali discorsi ? Se i rumori del mondo reale mi affascinavano le parole mi mancavano e mi mancavano anche perché ero legato all'idea purista del cinema muto come cinema assoluto, visione pura non "sporcata" dal discorso, dalla parola consueta che spesso detestavo, dal teatro. Lasciavo così  agli altri il peso e la responsabilità  della parola, se la volevano: d'altronde restare ammutoliti di fronte alla cinepresa, sfidarla, non nascondersi dietro a delle parole, era cosa eroica, che nessuno ha osato propormi e che io avrei anche desiderato ed ammirato.
Comunque questo passaggio dal muto al sonoro è stato all'inizio come una perdita di purezza, come un confondermi con la volgarità  del quotidiano, dell'apparenza del mondo reale. Ancora adesso il solo rapporto immagine/musica mi sembra il più  emozionante ed affascinante: in questo senso Scarti di memoria è un video perfetto per me! (Buffa)

A proposito di questa tipologia di video costruito sull’incontro degli altri, Buffa afferma che oggi non è più possibile per lui, fare dei film in questo modo, perché è decaduta la magia del caricatore della pellicola a tempo chiuso.  «Diventerebbe tutto arbitrario insensato, con quale criterio dovrei decidere la durata della ripresa? Con il video non esiste più la dimensione finita del tempo, la fragilità, la temporalità»(Buffa). Il cinema come la “morte al lavoro” (Cocteau). Buffa sostiene che la pellicola filma la “morte al lavoro”, il video non filma più niente di definitivo. Ma la costante è sempre il piacere di filmare senza secondi fini, una caratteristica  che secondo Buffa non solo appartiene alla sua esperienza, ma attraversa in modo trasversale  tutto il cinema privato. Buffa la definisce un’intima necessita, ed è una caratteristica fondamentale (il piacere di filmare) che trova la sua collocazione nell’etichetta di “cinema privato”, che dà finalmente un riparo a tutti quei cineasti che come Buffa, non avevano una collocazione, e che vivevano in una sorta di limbo, di indefinitezza e adesso grazie a questa definizione hanno trovato un luogo, una collocazione, un riconoscimento per quello che  credono di essere.
A proposito del cinema privato secondo Buffa le differenze che intercorrono tra il cinema commerciale e il cinema privato, sono  nella rappresentazione del quotidiano. Nel cinema commerciale il quotidiano scompare, diventa leggendario, onirico, Buffa sostiene che al cinema oggi manca la realtà, manca Lumière. Forse l’unico esempio di realtà rivissuta dal cinema è quella di Straub-Huillet o di Godard, tutto il resto del cinema è fantasia onirismo surrealtà. Buffa sostiene che è nel cinema privato che ritroviamo una certa quotidianità un’immediatezza una dimensione riconoscibile, in cui è possibile riconfrontarsi. Secondo Buffa  l’elemento della quotidianità (che a sua volta era una tematica del New American Cinema, di Mekas di Brahckage) è prezioso «dal momento in cui la televisione che dovrebbe mostrarci la realtà, non ce la mostra affatto, ci mostra universi di finzione, programmi manipolati che non hanno niente a che vedere con la realtà pura, essenziale delle cose, con l’etica del vero o lo “splendore del vero” (Rosellini)» (Buffa).
La terza fase della produzione di Michelangelo Buffa è quella che viene definita da un lato etnografico-antropologico, ma dall’altro (dentro la definizione della  visione soggettiva dell’autore) rientra nella nostalgia della fine del mondo contadino e dell’inevitabile esaurirsi delle cose. Ritorno a Bringuez    (1995-2005) è un documentario su un  villaggio abbandonato, che l’autore considera un simbolo, un monumento alla vita contadina, un villaggio dalle case cadenti, in una magnifica posizione. Un luogo meta di pellegrinaggio da parte dell’autore, legato affettivamente non tanto ai personaggi che compaiono nel corso del filmato, quanto alle pietre di quel villaggio.  Un documentario che riletto dentro  la soggettività dell’autore diventa una cosa privata, e si ricollega alla dimensione dell’unico grande film della sua vita. Ogni film è un frammento, un pezzo che si ricollega ad un altro, come le tessere di un mosaico, fino a formare il grande affresco della propria vita. Dentro l’ottica della famiglia che svanisce, della vita che decade, del cinema che documenta il tempo che passa. Buffa intervista più volte sua madre, nel video Una Metressa a Grand Ville (1993-2002), Buffa riprende la madre che racconta la sua avventura del primo anno d’insegnamento nel 1932 in questo villaggio di montagna ( Grand Ville). Il video cattura la capacità dell’anziana maestra Liberata Biasini di far rivivere quei momenti di vita passata. Nella semplicità della messa in scena, racconta Buffa, il video è risultato  uno tra i più visti e tra i più apprezzati della sua produzione, il più coinvolgente.
Nella produzione di Buffa il video Benares, per certi aspetti di carattere etno-antropologico, rappresenta un’estremizzazione del genere. Girato in occasione di una visita alla città di Benares, allo scopo di incontrare il Gange, il  “fiume sacro”. L’immagine che l’occhio della telecamera esplora, è un riflesso dell’interiorità dell’autore, il quale si sofferma sugli aspetti meno consolatori del genere documentario, e ci restituisce particolari, rumori, situazioni che diventano la soggettività dell’autore più che l’oggettività dell’ambiente. L’insistere su particolari, l’autofilmarsi, la voce off che parla dell’esperienza intima dell’autore, sono la cifra di un reale  di cui l’immagine diventa la superficie. Paradossalmente diventa più oggettivo il documentario soggettivo che il documentario tradizionale. Nel documentario tradizionale (non-fiction) c’è sempre una componente di fiction, un’inquadratura da rifare, una piccola messa in scena, nel documentario privato c’è un’esigenza di riprendere autonoma da condizionamenti esterni anche da condizionamenti di carattere estetico, non ci sono messe in scena.
La ripresa è dettata da autentiche motivazioni interiori, il guadagno non è la ricompensa per un lavoro svolto, ma l’aver soddisfatto  ad un bisogno che nasce dal proprio interno.
Costante nella produzione dell’autore valdostano è la sua soggettività che si esprime nella gioia di filmare il proprio punto di vista. Un punto di  vista che rispetta  sempre la realtà,  la       cronologia di  ripresa   (montaggio in macchina) «Non potrei mai invertire l’ordine della riprese […]è qualcosa che mi ripugna. La troverei una sorta d’inganno per il mio estremo rispetto della realtà nella sua dimensione spazio temporale» (Buffa). Il piacere di filmare introduce anche la scelta consapevole nei confronti del non-professionismo. «Il piacere di filmare anche nello scegliere il momento, le condizioni, i modi, il tema, lavorare su condizione non mi è favorevole»

Credo che per fare i professionisti del cinema bisogna essere battaglieri,decisi, ambiziosi, fortunati...quasi dei generali!Io non lo sono! Il amo il cinema tascabile, quello che porti sempre con te,che registra la tua vita in tutti i dettagli esteriori o simbolici. Amo l'indipendenza, filmare quando voglio, ciò che voglio e nel modo in cui voglio, essere il "creatore" assoluto senza compromessi soprattutto sul linguaggio: non fare questo, non lo capirebbero; questo è troppo fuori dalla norma, non puoi;  questo modo di raccontare non rispetta i canoni stabiliti...ecc. Filmo per me, non ho mai pensato allo spettatore, non ho mai pensato di saper o dover raccontare storie a qualcuno...sono molto anarchico in questo senso o forse è meglio dire autarchico. In fondo non cesso di stupirmi sul fatto che a questo mondo esistano anche" altri al di fuori di me", com'è possibile ciò? Seguo mie pulsioni, mie visioni secondo miei tempi, mie fasi di sedimentazione . Per tornare al cinema professionale che spesso amo negli autori veri: ho l'impressione che il dispiego di forze e di energie consumate per realizzare il film siano una sorta di spreco enorme di fronte al prodotto che poi ne esce, destinato a scomparire dagli schermi in breve tempo, visto da pochi e magari massacrato da compromessi.
Riconosco anche però che le costrizioni a volte sviluppano creatività, ti obbligano a trovare soluzioni.
Il cinema professionale è fatto per chi è riuscito a produrre una sintesi razionale sul senso del mondo e la vuole comunicare: io vivo nel mondo senza vederne i confini e quindi senza poterlo sintetizzare e razionalizzare
simbolicamente.
Oggi poi le nuove tecnologie digitali ti vengono incontro... puoi raggiungere il professionale stando a casa tua… fare ciò che ti pare senza elemosinare consensi o denari a produttori preoccupati dei risultati. (Buffa).

Il cinema, il tempo, la  visione, lo sguardo soggettivo sulla realtà, sono l’orizzonte osservato da Buffa con la macchina da presa. L’obbiettivo della camera appare rivolto verso l’esterno, alla ricerca di luoghi, di personaggi, del tempo che diventa attore e soggetto  delle sue visioni. La contrapposizione fra la pratica di critico cinematografico e l’amatorialità radicale, la libertà insita  nel proprio istinto di filmare in contrasto con un rigore formale, lo colloca compiutamente  nella tradizione cinematografica. Il continuo giocare con le immagini del proprio vissuto come  in una sorta di gioco di specchi favorisce esperienze di forti visioni originali che sono la cornice del suo cinema interiore, autonomo, espressivo.
Immagini, frammenti che si spostano sulla superficie del visibile in un gioco spazio temporale mimesi perfetta del cinema.

SCHEDE

 BENARES
Documentario  privato
2005 MINIDV- COL.  60’
MICHELANGELO BUFFA

 La caratteristica più importante di questo lavoro consiste nel ribaltamento dell’oggettività, in quanto è un documentario che documenta il soggetto e non l’oggetto. Il viaggio a Benares la città dove si viene a morire, è il pretesto per una discesa dentro il proprio stupore, le immagini documentano l’impensabile, il traffico, il caos, il rumore, un muro, un’apparente ostacolo che aspettava solo di essere filmato.     
«Mentre filmavo mi rendevo conto che c’erano questi personaggi isolati. Questi volti che vagavano e che mi affascinavano cercavo questi volti. La ricerca di un incontro. Alla fine quando uno di questi uomini si accorge di essere filmato, mi guarda, mi sorride.
Quel sorriso è stata una cosa bellissima». ( Buffa)
All’interno del video c’è un episodio (bolla onirica) «sorta di sogno contenuto nel mito di Benares, perché a Benares si va per morire»  L’episodio d’estinzione, è un tipo di ripresa con la tecnica della dissolvenza. Episodio che verrà riutilizzato e inserito in un altro film appena concluso Prove di estinzione.
Inedito
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SCARTI DI MEMORIA
Sperimentale
1970-2002, 8mm, 27’, B/N-COL.
Michelangelo Buffa

Se il cinema privato è l’inconscio del cinema pubblico, allora Scarti di memoria è l’inconscio del cinema privato. Dieci capitoli improbabili, resuscitati dal buio di una scatola, restituiti alla dignità dell’immagine casualmente. Rulli di pellicola rifiutata dall’autore,  perché giudicata inutilizzabile  tecnicamente insufficiente, ma non rifiutata definitivamente, semplicemente riposava in una scatola.  Come un pensiero che ci accompagna e poi appare all’improvviso. Questi scarti di riprese, azzardi visivi, sperimentazioni, impulsi momentanei sono riemersi finalmente liberi.
Il film è composto di dieci tracce di memoria  accoppiate con la musica. «Ritrovate sotto l’etichetta di scarti, visionate, riscoperto il loro fascino è così nato il desiderio di ridar loro vita…ecco i dieci episodi musicati, dieci episodi che  sono stati una sfida a trovar loro la musica giusta.» (Buffa)
Proiettato a Infinity Festiva di Alba nel 2003 e  a Siena  nel novembre 2005

UNA “METRE’SSA” A GRAND VILLE
DOCUMENTARIO
STORICO/ANTROPOLOGICO
1993-2005 S-VHS- MINIDV.COL. 45’
MICHELANGELO BUFFA

Le immagini del villaggio semiabbandonato di Grand Ville sono lo sfondo del racconto di
Liberata Biasini maestra elementare. La lunga video-intervista ci immerge in un mondo che non c’è più, ma rivive attraverso l’inesauribile capacità dell’anziana maestra di evocare quell’avventura lontana.
«L’intervista è stata realizzata in certo periodo le riprese del villaggio sono state effettuate un anno o due dopo» (Buffa)
Proiettato  Festival Milano 2002- Effetto Donna 2004- tre passaggi televisivi  dal 2002 al 2005 RAI REGIONALE AOSTA, fascia oraria domenica mattina.

CONCLUSIONI

Il dibattito sulla definizione del termine cinema privato, i punti di riferimento entro cui meglio comprenderlo, i generi cinematografici che può accogliere e perché, la collocazione all’interno del dibattito accademico, il bisogno di definire nel dettaglio gli aspetti e la complessità del suo alquanto inesplorato territorio , sono gli elementi di un percorso  appena iniziato.
Odin ha il grandissimo merito di avere riportato all’attenzione del dibattito accademico  una parte di questo sommerso e dunque poco visibile continenete del 70%. Nel fare questo ha elaborato alcune teorie massimamente condivisibili, ma che pure naturalmente lasciano ampi spazi al dibattito, a riprova della molteplicità e complessità della comunicazione audiovisiva.
Un passaggio importante è la sua insistenza sul problema dell’autenticità rispetto alla verità, ovvero quello esemplificato da una comunicazione basata sull’emozione e non sulla dimostrazione. A mio parere questo concetto di verità  legato all’emotività mi sembra più legato ai meccanismi produttivi dei programmi realizzati per la  televisione, per la pubblicità che non dentro il territorio, per quanto ancora non completamente definito del cinema privato.
Un'altra questione è anche il confine tra cinema e non-cinema.
Odin, nel momento in cui dice che colui che gira un film familiare non starebbe facendo del cinema, in quanto non in possesso di un’autonomia di sguardo, perché lo sguardo non è attribuito  al singolo ma il ruolo di autore spetterebbe all’intero gruppo familiare, esclude a priori una possibilità, seppure molto debole, di valenza comunicativa, di valenza cinematografica. Sembra quasi che, nell’escludere valenza cinematografica al cinema familiare, si schieri a favore di una forma-cinema, invece di mantenere una neutralità, una equidistanza.
Le intuizioni di Adriano Aprà all’interno di questo cinema sommerso, di cui il cinema privato è una parte ancora da definire compiutamente nella sua molteplicità e ampiezza, ci offrono lo spunto per una  riflessione oltre l’uso di terminologie come: main stream, non-fiction, musica e immagini, ecc.; arrivando ad una similitudine che io ho trovato particolarmente felice, ovvero che il “cinema privato è l’inconscio del cinema (di sala, commerciale, pubblico)”.  Ma nella misura in cui l’inconscio è un territorio vasto e complesso e spesso per imparare a conoscere noi stessi siamo costretti ad attraversarlo, così per conoscere il cinema nella sua complessità e completezza non possiamo rifiutare di esplorare il territorio del cinema privato.
La particolarità del percorso di Michelangelo Buffa, da una parte la sua forte dimensione amatoriale  unitamente  alla sua profonda cultura cinematografica, dall’altra; la sua espressività nel modo di utilizzare e ri-utilizzare il materiale cinematografico, il gusto per  un rigore formale unito alla forte componente autobiografica, lo pone dentro il territorio del cinema privato. Un territorio attraversato da Buffa in un modo personalissimo che non si pone come confine del genere, ma più semplicemente e dunque umilmente e creativamente, come la sua soggettività non esclude le altre, così il suo modo di fare cinema è uno dei tanti possibili.

BIBLIOGRAFIA

 Roger Odin Il cinema amatoriale, Gian Piero Brunetta (a cura di ), Storia del Cinema Mondiale, vol.IV, Einaudi

Roger Odin, Il film di famiglia,”Bianco & Nero” ,a. LIX ,n.1 gennaio-marzo 1998

Marie Cardinal, Le parole per dirlo, Pombiani , Milano1976

Adriano Aprà (a cura di), New American Cinema, Ubu libri, Milano, 1986

Alfredo Leonardi, Occhio mio dio,Il New American Cinema, Feltrinelli, Milano, 1971

FILMOGRAFIA

Alphaville                                         di Michelangelo Buffa 1972-2000
Andy Warhol’s film                          di Michelangelo Buffa 1982
8 volte Godard                                  di Michelangelo Buffa 1984
Ritorno a Bringuez                           di Michelangelo Buffa 1992-2000
Una “metrèssa” a Grand Ville         di Michelangelo Buffa 1993-2000
Scarti di memoria                             di Michelangelo Buffa 1970-2002
Benares                                             di Michelangelo Buffa 2005

 

SITOGRAFIA

WWW.HOMEMOVIES.IT

 APPENDICE: INTERVISTA

Michelangelo Buffa intervista del 29.01.06
effettuata da Fabrizio Fuochi a Milano

Domanda: quali sono le origini del tuo lavoro con il cinema… della tua passione per il cinema.
M.B.: Le origini come tutte le origini è un pò incerta, inconsapevole direi e anche doppia. Da un lato la passione per la visione dei film per il cinema proiettato, che credo nasca dal fatto…Non lo so, in realtà non so da dove nasca questa passione. C’è stata si è sviluppata è stata travolgente, ma non
saprei dire l’origine è stata una passione istintiva immediata.
Mentre invece per quanto riguarda la ripresa credo che…di aver subito il fascino della machina, della meccanica, della meccanica dell’oggetto. La cinepresa come oggetto, credo che sia stato il motore di tutto. E certamente poi il piacere di riprendere, di filmare, però il piacere soprattutto di avere questa specie di motorino in mano  che ricreava la vita, era una sorta di mondo parallelo che veniva fuori dalla macchina
Domanda: ma c’è stato un momento particolare, per esempio ti hanno regalato…
MB:Certo, certo, si avevo circa quattordici anni è ho chiesto a mio padre di regalarmi una cinepresa, e così la scelsi ed era una piccola Bolex-Paillard 8mm a fuoco fisso che è stata per alcuni anni la mia cinepresa.
Poi in seguito me ne feci comprare un’altra sempre una Bolex-Paillard 8mm,
questa volta con lo zoom perché dovevo andare in Spagna e volevo filmare la corrida…e allora volevo lo zoom.
Domanda: Ma l’hai filmata dopo la corrida?
M.B.: Certo, certo.
Domanda: Bene… e poi dopo la corrida cos’è che hai continuato a filmare?
M.B.: Poi mi sono reso conto che la cinepresa stava diventando la compagna della mia vita, stava diventando il mio terzo occhio. Un occhio privilegiato con cui io guardavo il mondo, guardavo gli altri. In realtà subito ho cominciato aguardare me stesso, perché il primo periodo della mia filmografia, se così vogliamo chiamarla, è un periodo dedicato alla osservazione di me stesso. Io mi auto-filmavo, mi raccontavo le mie angosce esistenziali, il mio onirismo, il mio disagio giovanile che come già ho avuto modo di dirti, andavo spessissimo al cinema. Avevo poco tempo per la vita normale. Molto parte della mia giornata la passavo nella sala buia, soprattutto al pomeriggio, la sera. Per cui questo creava anche un certo disagio esistenziale, perché dicevo “io dove vivo? Vivo nella finzione dello schermo e cesso di vivere la vita che fanno tutti gli altri”. Questo m creava una dimensione un po’ schizzoide che credo di aver ben rappresentato nel film Alphaville. 
Domanda: Quando facevi queste cose le prime riprese le portavi a sviluppare e poi? Montavi da solo?
M.B.: I primi tempi ovviamente avevo pochi soldi. Le pellicole costavano abbastanza. Mi ricordo che a quel tempo una pellicola 8mm costava 2500 lire e durava 2 minuti e mezzo. Per cui compravo, mi facevo comprare due o tre  pellicole e quindi centellinavo le inquadrature, non sprecavo nulla, e poi mandavo tutto a sviluppare. Dopo quindici, venti giorni mi ritornava la pellicola sviluppata. I primi tempi la guardavo contro luce, poi finalmente mi sono fatto comprare il proiettore e la potevo proiettare. Il montaggio è intervenuto dopo quando ho incominciato a fare dei film a tema, a raccontare delle storie, benchè siano state delle storie autobiografiche.
Domanda: Quando vedevi il tuo girato e facevi delle proiezioni del tuo girato, le vedevi da solo o in compagnia?
M.B.:In genere questa è stata tutta una attività diciamo molto individualista, solitaria molto privata. Direi totalmente privata. Si ci sono state occasioni in cui io facevo vedere questi film ad amici  conoscenti, ma tutta l’attività produttiva , diciamo così, era completamente solitaria e individuale e non avrei saputo condividerla con nessuno. Era un’attività molto narcisista anche.
Domanda: Ci sono  autori di riferimento? E se si che cosa ti ha colpito di questi autori?
M.B.: Per i primi anni, devo dire che io andavo al cinema per il piacere del cinema, non avevo ancora acquisito una dimensione critica. La dimensione critica l’ho acquisita incontrando un mio amico, un mio coetaneo, con il quale si è stretto una forte amicizia. Cinefilo, era stato il mio compagno di cinefilia che mi ha introdotto in una dimensione critica del cinema. Essenzialmente mi ha fatto leggere il cinema da un punto di vista simbolico. Mentre io prima non giungevo a questo livello di lettura.  Da quel momento in poi, è nata la mia  vera  passione cinefilica, quando io ho incominciato a interpretare a leggere le immagini ed è iniziato anche tutto il discorso della lettura critica dei film; quindi la lettura di riviste, come ad esempio le Cahiers du Cinèma che mi hanno aperto nuovi orizzonti di lettura, hanno buttato giù tante barriere.
Io mi ricordo che nel primo periodo, diciamo di spettatore inconsapevole, io non andavo mai a vedere le commedie americane, perché le consideravo delle stupidaggini, mentre per esempio andavo a vedere i western all’italiana o i film di spionaggio che erano poca cosa rispetto al cinema di autore. Quindi in questo secondo periodo più critico il livello si è innalzato  tantissimo, e ho conosciuto quindi tutta una serie di grandi registi che ho amato… In realtà io amo il cinema in generale, non posso dire di amare più John Ford rispetto a Bunuel, o Fellini più di Bergman. Io li amo tutti quanti, e da tutti o preso qualcosa credo. Soprattutto direi chi  forse mi ha segnato di più, da un punto di vista della mia pratica, è stato John Ford nell’idea di inquadratura. Io sento molto questa idea di inquadratura che è tipica del cinema ed è molto poco usata nel video. Dove il video è più fluido, dove questo concetto di inquadratura quasi non esiste, ma che io continuo a praticare, anche usando la video camera, proprio perché sono legato a questo concetto di scrittura che nasce molto dal concetto di inquadratura, come spazio simbolico della rappresentazione. Dicevo John Ford e per parlare di un cinema più attuale il cinema di Straub-Huillet che io trovo un cinema assolutamente sublime.
Domanda: Facendo un passo indietro mi interessava capire…questo amico che ti apre la via alla lettura simbolica del film, potresti essere più preciso?
M.B.: Si potrei fare un’esempio. Ricordo benissimo che stupendomi, mi parlava dell’erotismo del vampiro, mi parlava della bellezza del cinema di Terence Fisher, disquisendo sulla dimensione erotica del vampiro. “Il vampiro è una figura erotica, nella sua pratica vampiresca”. Io sono caduto dalle nuvole quando mi raccontava queste cose. Poi andando al cinema e vedendo questi meravigliosi film di Terence Fisher Dracula il vampiro, La mummia, ecc., ho veramente verificato che non mi stava raccontando stupidaggini che il livello simbolico esisteva in questi film e funzionava proprio così.
Domanda: quale è stato il momento in cui tu hai realizzato che potevi fare del cinema?
M.B.: A parte il primo periodo di pratica inconsapevole, in cui io filmavo qualsiasi cosa, qualche scenetta familiare, l’amico o qualche immagine di vita contadina che mi sembrava interessante, un matrimonio, piccole cose del genere senza  la presunzione di dover  raccontare  una storia conclusa.
Nel secondo periodo, io sono sempre stato convinto e lo sono ancora, di fare del cinema. Io ho sempre creduto di fare un cinema. Io ho sempre creduto di fare un cinema, non un cinema dei grandi, il cinema professionale, il cinema commerciale, ma un “cinèma de poche” lo chiamerei. Un cinema tascabile, un cinema a mio uso e consumo anche perché…dico a mio uso e consumo, perchè non ho mai pensato a degli spettatori. Quando giravo delle cose o raccontavo la mia storia, le mie storie, lo facevo per me l’ho sempre fatto per me questo cinema che poi qualcuno l’abbia visto, questo era  un fatto secondario.
Domanda: Quando entra in gioco lo spettatore?
M.B.: Lo spettatore entra in gioco casualmente, quando qualcuno mi chiede di poter vedere, mi chiede che vengano proiettate queste cose.  In realtà io non sono mai andato verso lo spettatore. Ritenendo il fatto che ogni film fa parte come in un puzzle di una grande unità. Io in fondo faccio sempre lo stesso film, o faccio parti diverse di uno stesso film. Frammenti di uno stesso film, faccio un unico grande film che in fondo è il film della mia vita. Quindi personaggi che sono entrati e usciti dalla mia vita, il tempo che passa, le cose che cambiano. E’ sempre la stessa storia che si ingrandisce si gonfia, si arricchisce che in fondo non ha bisogno di nessuno spettatore. Sono io il primo spettatore forse l’unico. C’è una sorta di totale…un circolo vizioso, una forma di narcisismo, non so…si può chiamare come si vuole…Ma essendo la cinepresa la mia compagna privilegiata, il mio terzo occhio, ciò che ne è scaturito è questa dimensione un po’ ombelicale se vuoi, della pratica filmica privata.
Lo spettatore non poteva esistere come funzione prima, perché ciò che volevo raccontare, volevo sintetizzare erano le mie emozioni, le mie storie personali, le mie visioni. Questo non necessariamente doveva interessare qualcun’altro. Diciamo che questi video sono una sorta di residuo della mia vita, ciò che resta, una consapevolezza anche di ciò che il tempo ha consumato.
Domanda: E’ anche vero che questo rapporto con lo spettatore un po’ si è modificato, è entrato nell’inquadratura, se mi concedi il paragone.
M.B.:Si, lentamente lo spettatore è entrato, non su tutti i film, direi su alcuni.
Per esempio su quei film…, finito il primo periodo autobiografico, mi sono rivolto verso gli altri. Mi sono messo a guardare gli altri, affascinato dagli altri, affascinato dai volti soprattutto. Da questi esseri che io facevo parlare, ma che in realtà non ascoltavo affatto, perché ciò che mi interessava era semplicemente il piacere di guardarli esistere davanti alla cinepresa. Ecco da
quel punto di vista lì lo spettatore può essere coinvolto, perché quella visione può essere condivisa facilmente con altre. Così come anche alcuni documentari che ho realizzato su i racconti di mia madre,  oppure il villaggio di montagna abbandonato o un viaggio in India.
Domanda: Ecco volevo parlare un momento di questa evoluzione: la nascita di questa passione, poi la passione si trasforma in un’azione di riprendere, poi c’è questa presa di coscienza del gesto di riprendere e quindi c’è anche il bisogno di mostrare il proprio percorso di sguardo
M.B.: Tutto questo è vero, però come forma primaria impulsiva c’è solo quella di filmare proprio per il piacere, per la necessità di riprendere  e di filmare, al di là del fine, della finalità, di chi avrebbe guardato queste cose, non ho mai pensato a quello. Il primo impulso è proprio il piacere di riprendere il piacere di arrivare a filmare quella cosa lì che magari mi ossessionava da tanto tempo.
Domanda:Vorrei che tu mi parlassi del tuo bisogno di uscire da te e come attraverso i tuoi film hai realizzato questa cosa, il percorso, come hai vissuto questo momento.
M.B.: La mia attrazione verso gli altri e qualcosa che sta all’interno della mia attrazione in generale per la realtà, quella che noi chiamiamo realtà. Chi sono questi individui, come si muovono cosa fanno?E’ comunque un’attrazione per la forma del documentario, cioè il documentario come documentazione,  come lettura della realtà. Quindi io potevo essere affascinato da alcuni temi, ad esempio il mondo contadino, le memorie, il tempo che passa, le cose che si dissolvono. Oppure gli impatti violenti con le realtà altre, come ad esempio nel caso dell’India: in cui io mi trovo immerso in un mondo che mi è completamente estraneo, e nel quale cercavo di avere una sorta di collocazione, di collocarmi in qualche maniera, cercare di farmi accettare e nello stesso tempo, cercare di  assorbirlo completamente di sentirne tutta l’emozione nella sua intensità.
Domanda: In questo senso gli approcci verso gli altri si possono sintetizzare nei film 8 volte Godard e Andy Warhol…
M.B.: Poi c’è Coppie poi Io,io e gli altri. In Io, io e gli altri il pretesto era quello per cui queste persone che sono conoscenti amici parenti dovevano parlare di me. Mentre invece in Coppie, io filmo semplicemente delle coppie, frammenti di tempo di una coppia.
Domanda. Presupposti generali di Andy Warhol film’s e 8 volte Godard…
M.B.: Andy Warhol viene prime di 8 volte Godard. Andy Warhol come artista mi ha sempre affascinato, l’ho sempre considerato un grande artista e ho sempre amato i suoi film. Questa idea geniale di registrare la realtà di lasciare scorrere la pellicola di filmare i tempi morti, mi ha sempre affascinato.
Per cui volevo fare qualcosa alla “maniera di”, nel piccolo dei miei caricatori super 8. Quindi ogni personaggio aveva a disposizione quei tot. Minuti, corrispondenti alla durata di un caricatore, circa due minuti e mezzo. Il pretesto era i film di Andy Warhol che la maggior parte di questi personaggi ripresi non conosceva affatto. Alcuni di questi non conoscevano neanche Andy Warhol. Perché? Perchè volevo camuffare attraverso le loro parole il mio desiderio di osservarli, di scrutarli. Io volevo quasi nella mia illusione, catturare l’anima di questi personaggi. In realtà  fra me e loro, fra loro e la cinepresa, creavano questa barriera di parole, tanto vero che quando finiscono le parole  e la cinepresa continua a girare, sono quelli i momenti più eccitanti per me, più straordinari. Loro sono come degli acrobati che cadono senza la rete di protezione, non sanno più come esistere, come affrontare la cinepresa che continua a filmarli. Perché tutti hanno bisogno di protezione di crearsi delle barriere. Io avrei voluto incontrare qualcuno che proprio in quei momenti li, sapesse superare l’impatto dell’obbiettivo della cinepresa, e sfolgorante di energia e di vitalità, mostrasse la propria anima, ma questo non è mai successo.
Domanda: Qui c’è già una parte di audio?
M.B.: Si questi sono super 8 sonori certo. Per me è stato traumatico il passaggio dall’8mm al super 8, perché è stato il passaggio dal muto al sonoro. Quando ho comprato questa Nizo sonora, mi sono detto: “adesso cosa incido su questa pista sonora? Quali mai saranno le parole dei miei film?”. E infatti io non ho mai saputo mettere delle mie parole, ho sempre cercato le parole degli altri, ho sempre cercato, stimolato negli altri un discorso, ho creato dei pretesti perché qualcuno parlasse. Ma io non sono mai stato in grado di mettere delle mie parole sulle mie immagini, solo ora sto cercando, faticosamente di mettere delle parole molto centellinate, molto brevi, appena accennate, come commento di certe mie immagini. Perché non ho fiducia nella parola trovo che abituati alla televisione che è un frullatore di parole che ci sommerge di parole inutili, oggi ritrovare il valore della parola sia una operazione difficilissima da farsi.
Domanda: In questo senso anche 8 volte Godard ricalca un po’ questa idea di Andy Warhol Film’s…( l’autore offre un testo, una sorta di copione, il commento di altri registi su Godard, in modo tale che le persone intervistate, leggendolo possono rispondere)
M.B.:Ovviamente anche qui c’è un ventaglio di situazioni diverse, perché c’è colui che semplicemente ha memorizzato questo testo e lo dice, c’è quello che lo recita lo interpreta. Ovviamente chi lo recita lo interpreta sono i primi che sono caduti nella trappola, perché io non cercavo affatto degli attori. Io cercavo degli esseri, cercavo delle anime, cercavo delle persone, ancora una volta da guardare da osservare, non cercavo degli attori.
A proposito di Andy Warhol Fim’s, 8 volte Godard e di tutti gli altri,  costruiti su questa tipologia; cioè coppie, Io, io e gli altri , India e America, (ne ho fatto anche uno sui viaggiatori in India e i viaggiatori in America), devo dire che oggi, purtroppo non mi sarebbe più possibile fare una cosa del genere, anche se mi piacerebbe molto, perché decade la magia del caricatore a tempo chiuso. Con questi nastri dei video: in base a che cosa dovrei decidere che filmo questo personaggio per 10 minuti, per un quarto  d’ora, per venticinque minuti, diventerebbe tutto arbitrario, e non avrebbe più senso.
Io personalmente trovo che l’uso del video, per questa tipologia di filmati, diventa insensato perché il tempo diventa infinito. Si perde, la fragilità, la temporalità, la dimensione finita del tempo. Il cinema diceva Cocteau è “la morte al lavoro”, questo concetto mi ha sempre affascinato, e la pellicola filma “la morte al lavoro”, il video non filma più niente.
Domanda: Mi sembra che il piacere di filmare sia una condizione che ti contraddistingue.
M.B.:Si, io credo che questo sia un elemento trasversale di tutto il cinema privato, questo di filmare per il piacere di filmare e non per altri fini per altri scopi, su commissione. Questo sia l’elemento fondamentale che caratterizza il cinema privato, filmare per il proprio piacere, per un’intima necessità.
Domanda: come sei arrivato al cinema privato?
M.B.: Il cinema privato è un’etichetta che è stata coniata da qualcuno in maniera geniale trovo, e che ha dato riparo a tutti quei personaggi che come me, si sono trovati come in una sorta di limbo, perché non eravamo ne dei cineamatori familiari, quelli che fanno i filmini familiari, ne eravamo dei professionisti, quelli che fanno il cinema commerciale, o il documentario commerciale. Eravamo in questa situazione di mezzo molto indefinita molto vaga, in una sorta di limbo. Ora ritrovarci sotto questa etichetta di cinema privato, ci da una connotazione, ci da un senso di essere riconosciuti per quello che crediamo di essere.
Domanda: Quando noi guardiamo un film tradizionale, di sala la distanza tra noi e il film è una distanza molto grande, puoi parlarmi di questo?
M.B.: E’ una distanza molto grande, che però  presuppone  l’assenza totale di, distanza,perché se non c’è assenza di distanza  tu che tipo di spettatore sei?  Il coinvolgimento totale durante la proiezione fa si che la distanza venga annullata. Infatti se ci pensi bene la condizione dello spettatore è una condizione completamente assurda, perché sei in uno stato di ipnosi. A me piace a volte al cinema voltarmi, guardare il vicino guardare chi mi sta dietro. E vedo tutte queste teste immobilizzate con gli occhi sbarrati che guardano lo schermo, e mi spavento e dico “possibile che anch’io sono così?. Totalmente ipnotizzato per due ore da delle immagini che scorrono su uno schermo, è una follia questa?” E’ una follia meravigliosa.
Domanda: Il modo in cui un’immagine viene prodotta fa si che crei questa distanza tra te e l’immagine. Nel cinema privato non c’è questa distanza tra lo spettatore e l’immagine, perché è un’immagine molto più diretta, molto meno artefatta, non è costruita
M.B.:E’ un’immagine più quotidiana, nel cinema commerciale il quotidiano scompare, viene epicizzato, diventa leggendario, diventa onirico. Al cinema oggi manca la realtà, manca la realtà primaria, manca Lumière. Lumière non esiste più, se vuoi vedere Lumière al cinema oggi dove vai? Non ti rimane che Straub-Huillet, forse Godard e qualcun altro che ti mostrano questa realtà rivissuta dal cinema. Tutto il resto del cinema è fantasia è onirismo è surrealtà. Nel cinema privato invece, ritroviamo una certa quotidianità un’immediatezza come dicevi tu, una dimensione riconoscibile in cui tu ti puoi riconfrontare, confrontare.
E’ anche prezioso (il cinema privato, nell’ottica della realtà) dal momento in cui la televisione che dovrebbe mostrarci la realtà non ce la mostra affatto. Ci mostra universi di finzione di programmi fittizi, manipolati che non hanno più nulla a che vedere con la realtà essenziale, pura delle cose.
A proposito di avanguardia volevo dire che tra i miei riferimenti iniziali, ho parlato di Andy Warhol, ma anche di tutto il New American Cinema che era ricchissimo di stimoli di invenzioni. E’ stato veramente uno scoprire un mondo nuovo liberato e liberatorio… Era la rivendicazione che era possibile fare un cinema tascabile, un cinema quotidiano, un cinema privato.
C’era la necessità del cinema diaristico che documenta la vita, Mekas Brakhage, e poi tutte le sperimentazioni tecnologiche di Michael Snow La Rrégion Centrale.
Domanda:  Torniamo alle produzioni, I film a carattere etnografico che  rientrano nel cinema privato in quanto cinema di prossimità, poiché parlano anche  della vita dell’autore, delle sue esperienze. Potresti parlarmi di Ritorno a Bringuez ?
M.B.: Ritorno a Bringuez, se vogliamo portarlo all’interno della mia  dimensione soggettiva, rientra in quella che in me potrei chiamare, la nostalgia della fine del mondo contadino. Mondo contadino che io ho vissuto e di cui ho visto la fine, e in particolare questo villaggio è un villaggio che io considero un villaggio  molto simbolico, una sorta di monumento alla vita contadina, un villaggio abbandonato, un villaggio dalle case ormai cadenti, in una magnifica posizione. Un luogo che per me è diventato un luogo di pellegrinaggio, proprio perché queste mura queste pietre vibrano ancora della vita contadina che c’è stata e non c’è più. Per cui in questo senso questo documentario che potrebbe passare come un normale documentario, diventa qualcosa di mio personale di soggettivo, affettivamente legato non tanto ai personaggi che compaiono nel video, quanto alle pietre di quel villaggio.
Domanda: Hai fatto diversi lavori su tua madre, potresti parlarmi di Una metrèssa a Grand Ville?
M.B.: Mia madre, mio padre li ho filmati spesso proprio dentro quest’ottica della vita che decade, della famiglia che svanisce, della casa che va in rovina, dentro quest’ottica del cinema che documenta il tempo che passa, la vita che muore, “la morte al lavoro” di nuovo.
Una metrèssa a Grand Ville, è un’intervista un po’ a se che può funzionare benissimo in maniera isolata, perché li mia madre racconta un frammento della sua vita passata. In particolare il primo anno d’insegnamento nel 1932 in questo villaggio di montagna, lei che veniva dalla città, si trova immersa in una realtà completamente inconcepibile per noi oggi. Il video in realtà, è estremamente semplice, perché consiste in queste inquadrature su di lei che racconta, e di alcune immagini del villaggio rivisitato oggi. E’ uno dei video più semplici, però cattura la capacità di mia madre di raccontare, di far rivivere quei momenti di vita passata, descrivendoli in maniera molto articolata  e molto divertita. Questo video, Una Metressa a Grand Ville è il mio video più visto e più apprezzato dagli spettatori, in realtà è il video che meno mi interessa personalmente, perchè per tutto l’affetto che ho per mia madre, non è un video che mi ha coinvolto più di tanto. Non ho messo in scena nessuna tipologia di racconto o di produzione particolare, e una cosa estremamente semplice che è andata bene.
Domanda: Che differenza c’è tra questa intervista Una metrèssa a Grand Ville e ciò che passa normalmente in televisione?
M.B.: In genere nei programmi televisivi poiché si teme di annoiare lo spettatore, si cambia spesso l’inquadratura, si cambia spesso argomento, si rende la cosa più fluida più veloce. Io quando ho fatto questo video non mi sono assolutamente posto questi problemi, anzi l’intervista l’ho fatta in un certo periodo, e poi forse un anno o due dopo, sono andato a filmare i luoghi di questo villaggio, come si trova nelle condizioni attuali, e poi ho messo insieme le due cose, e quindi ho fatto il video. Un po’ come sempre mi succede, io tengo sempre un po’ in tasca la cinepresa o la videocamera, improvvisamente la tiro fuori e comincio a filmare senza una premeditazione.
Sono sempre stato così impulsivo nelle mie riprese, improvvisamente, e da li derivano certe mie carenze tecniche, per cui non faccio mai a tempo a preparare tutte le cose bene, affinché tutto funzioni, perché mi butto improvvisamente sul soggetto, nel momento in cui mi sembra più opportuno, senza neanche pensare, se costruire una storia che magari verrà, oppure non verrà affatto. Moltissime immagini familiari io le ho girate per il solo gusto o piacere di registrarle, sapendo che poi  avrebbero trovato una collocazione in questo grande puzzle che è la mia vita filmata.
Domanda: Puoi parlarmi della potenzialità del cinema privato come stimolatore di azione di filmare, (non essendoci più  distanza tra lo spettatore e l’immagine che viene rappresentata), come stimolatore di soggettività. Lo spettatore attraverso queste immagini non artefatte del cinema privato, viene incentivato  a utilizzare la telecamera, a raccontare qualcosa.
M.B. : Nel cinema commerciale nel cinema che andiamo a vedere sul grande schermo, non si sa mai bene di chi sia il punto di vista. Di chi è il punto di vista di queste inquadrature?  Di  Dio? Di chi? Non si sa. E’ un punto di vista indeterminato, non si sa chi sta guardando che cosa. Mentre invece, io sto parlando del mio caso, il punto di vista è sempre il mio punto di vista. Io non posso immaginare una neutralità, e ho sempre considerato l’occhio della cinepresa come il mio terzo occhio, il mio sguardo sulla realtà, sul mondo.
A proposito della stimolo della voglia di girare, non lo so.  Sono già coinvolto. Dovrei azzerare tutto trovarmi vergine e poi risponderti.
Devo dire che quando io vedevo questi film dell’Underground americano, ne uscivo sempre stimolato, ne uscivo sempre pieno di idee di progetti che poi magari svanivano col tempo, però era un grande stimolo per me .
Mentre invece i film di finzione  che vedevo sul grande schermo, erano un piacere e basta, non potevano esser uno stimolo. L’’idea di raccontare una storia mi è sempre sfuggita. Benché in tutti i film, i video che ho fatto, in qualche modo io racconto una storia anche non raccontandola. Raccontare una storia nei termini classici con degli attori dei personaggi, l’ho fatto forse una volta o due, però non è una cosa che mi abbia coinvolto o che mi attragga.
Penso che sarebbe bellissimo se tutti quanti possedessero una telecamera o una cinepresa e filmassero frammenti della propria vita.  Tutte le vite sono fantastiche, sono bellissime, sono interessantissime da rivedere da vedere anche se apparentemente sembrano tutte uguali.
Domanda:  Potresti parlare del video Benares?
M.B.: Dò per scontato che il mio punto di vista non può  che essere  soggettivo. Lo so che si può pensare…” questo qui è un folle narcisista”. Ma in realtà io non l’interpreto  affatto così, che ci sia un po’ di narcisismo,  soprattutto quando mi auto-riprendo, non lo posso negare. Ma io parto dal presupposto che l’unica consapevolezza che ho è la mia. Quale altra consapevolezza del mondo posso avere se non la mia? L’unico punto di vista non può che  essere il mio, mentre filmo, sulla realtà.
Io mi trovavo a Benares in mezzo a questo traffico incredibile che mi ha affascinato immediatamente, anche se il mio desiderio era di lasciare l’albergo e di raggiungere il Gange. Fra me e il Gange c’era quella folla immensa, questo via vai di biciclette, di moto, di macchine, di pedoni così straordinario che io mi sono detto “devo filmarlo”. Mentre filmavo mi rendevo conto che c’erano questi personaggi isolati. Questi volti, questi esseri che vagavano in questo traffico e che mi affascinavano, cercavo questi volti.  Per cui tutto il documentario diventa la ricerca di un’incontro. Un’incontro che si realizza alla fine quando uno di questi uomini in bicicletta, si accorge di essere filmato, mi guarda e mi sorride…, quel sorriso è stata una cosa bellissima.
Io mi trovavo a Benares con la mia maestra di Yoga e una discepola, alloggiavamo in questo grande albergo di lusso a Benares. Era tale la mia voglia di incontrare la realtà vera dell’India, e a Benares c’è un’India ancora autentica vera, non occidentalizzata. Era tale il mio desiderio di arrivare al Gange, di visitare questo mito, perchè ormai Benares era diventato un mito per me, e mi sono quindi tuffato più volte in questo mondo. L’idea centrale era quella di filmare il mio incontro, la mia soggettività che penetrava in questo mondo e voleva incontrare gli altri, questi volti, questi esseri, questi indiani, superando la mia alterità, superando il mio statuto mediocre di turista, di visitatore inconsapevole. Potevo fare questo attraverso l’occhio della telecamera.
Domanda: C’è l’aggiunta del testo nel video Benares che è una novità nell’ambito della tua produzione, vero?
M.B.: Si, ho sentito la necessità di mettere questa voce fuori campo per cercare di indirizzare l’eventuale spettatore, verso uno stato d’animo che  assomigliasse un po’ al mio, affinché capisse la mia operazione, affinché capisse la mia insistenza su quei luoghi, perché capisse il mio modo di rapportarmi alla città
Domanda: Benares è montato in machina, vero?
M.B.: SI. Sempre io detesto le manipolazioni, sempre io rispetto la cronologia della ripresa, la si ritrova  magari con delle sottrazioni di materiale, la stessa cronologia la si ritrova poi nel filmato. Io non potrei mai invertire l’ordine temporale delle riprese, è qualcosa che mi ripugna,  la troverei una sorta di inganno proprio per il mio estremo rispetto della realtà.
Domanda: L’episodio di estinzione?
M.B.:L’estinzione è una bolla onirica è una sorta di sogno contenuto nel mito di Benares, perchè a Benares si va per morire, anche. Ci sono le cremazioni, i cadaveri vengono buttati nel Gange.
Domanda: Queste tre volte del Gance che senso hanno?
M.B.: E’ la ripetizione di questo desiderio un po’ ossessivo di arrivare sul  “ fiume sacro”, l’abbiamo visitato di sera e trovi una certa realtà, l’abbiamo visitato all’alba e ne trovi un’altra, l’abbiamo visitato a mezzogiorno e ne trovi un’altra ancora. Una dimensione sempre cangiante, sempre nuova, sempre diversa, assolutamente affascinante.
Domanda: Una caratteristica del cinema privato è il rimettere le mani sui lavori precedenti, cosa ne pensi?
M.B.: E’ una possibilità straordinaria che ci viene offerta dal digitale. Nel senso in cui riversando i vecchi filmati aggiungendoli ai nuovi che sono già in digitale e inserendo tutto in un computer, praticamente tu hai tutti i filmati che
hai fatto nel corso del tempo della tua vita, ce li hai li presenti. Sono tutti compresenti nello stesso hard-disk, per cui puoi riprendere  qualsiasi frammento, qualsiasi immagine, ricomporla e ricostruire delle nuove storie. Quindi questo discorso del grande puzzle continua a esistere e ad ampliarsi sempre più.
Domanda: Questo da un punto di vista tecnologico, ma c’è anche  un aspetto che riguarda l’autonomia della ripresa e l’essere il committente di te stesso.
M.B.: Io sono il committente di me stesso. Ho provato ad avere un committente: ho fatto quindici documentari per la Rai d’Aosta, però non mi sono trovato affatto bene, nel senso che mi condizionavano tantissimo. Innanzi tutto c’era il condizionamento del tempo, dovevano durare tutti ventidue, ventitre minuti, dovevano essere in Francese o in Italiano, tutta una serie di condizionamenti anche tecnici per cui non mi sono sentito affatto libero. Il piacere di filmare sta anche nello scegliere il momento, le condizioni, i modi, il tema. Lavorare su condizione non mi è favorevole.
Domanda: Scarti di memoria è una bellissima sintesi del cinema privato, se puoi illustrare il processo creativo di questo video?
M.B.: Filmando come filmo io, sull’impulso del momento, ho filmato tantissime cose che poi non hanno avuto esito, non hanno avuto storia, non si sono collegate a niente altro, sono rimaste isolate. Ci sono immagini che sono tecnicamente dubbie, sfuocate, sgranate, discutibili, per cui questo materiale è finito in una scatola. Un bel giorno ricercando,rivedendo, digitalizzando, ecc,
ho rivisto queste immagini, e mi sono detto benché nella loro piccolezza, nella loro esiguità narrativa, potevano essere riutilizzate. Mi è sembrato che l’unico modo per riutilizzarle era quello di sposarle a dei commenti musicali, alla musica, e così ho fatto. Mi sono divertito molto. Il risultato mi è piaciuto molto. Mi sono molto divertito, però non gli ho dato quel peso, quel valore che gli stai dando tu adesso  che però mi sembra effettivamente condivisibile.
Le immagini  sono molto materiche, si vede la pellicola molto sgranata, molto lavorata,si sente la pellicola. Questo mi piace molto, quando l’effetto della trasparenza scompare, io non amo la trasparenza, queste immagini perfette, dove tu perdi la percezione dell’immagine, del mezzo, della materia ed entri nel rappresentato. Io detesto questo e lo trovo anche immorale, lo trovo un po’ osceno, pornografico. A me piace ia visione che si deve schiacciare sull’immagine, perché è quello che noi vediamo, la bidimensionalità dell’immagine. Invece ci facciamo irretire dalla tridimensionalità illusoria che è puramente onirica.
Se potessi righerei la pellicola la bucherei come facevano gli americani degli anni ’60 che ci facevano sentire la fisicità della pellicola.
Domanda: Cosa ne pensi del potere terapeutico del cinema privato, un cinema come terapia che serve per curare le proprie…
M.B.: Certo soprattutto nel mio caso, tutto il primo periodo quello autoreferenziale, quello esistenziale, con tutte le mie angosce giovanili, quello è stato fondamentale per me. Tirar fuori queste cose trasformarle in immagini, mi ha evitato di andare dallo psicanalista, su questo non c’è dubbio. Io mi liberavo continuamente attraverso le immagini di tutto un bagaglio psichico che cedeva nella mia mente, un potere curativo per chi lo pratica, anzi da consigliare.
Domanda: Un’ultima domanda quale potrebbe essere lo spazio, un luogo per il cinema privato?
M.B.: Questo è quello che dobbiamo inventarci. Probabilmente riproporre queste rassegne come quella di Siena, e cercare di coinvolgere qualche editore tipo Raro Video, visto che loro sono piuttosto aperti al cinema d’autore, al cinema sperimentale.
Grazie Michelangelo !
M.B.. Grazie a te.

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